IL SIGNORE DELLE MOSCHE, di William Golding
Recensione 1
La mosca è il simbolo non solo del demonio, ma in generale del peccato. Il nome di Belzebù deriva da Baal Zebus ossia “Il Signore delle Mosche”
Il romanzo di William Goldin è un romanzo di tutto rispetto.
La storia narrata con lucida, realistica esperienza e abile competenza ha un avvio fiabesco, avventuoso, magico.
I piccoli naufraghi, sopravvissuti a un conflitto planetario, sembrano aver trovato l’isola felice in quel luogo paradisiaco sperduto nell’Oceano.
La descrizione dettagliata di luci, ombre e colori con le loro incredibili sfumature, è fatata: un Paradiso terrestre.
“Ancora una volta, tra la brezza, le grida e i raggi del sole calante sull’alta montagna, aleggiò un’aura di avventura, irrorata dalla strana luce impalpabile dell’amicizia e della gioia”
Tutti inebriati, tutti amici “siamo come in un film”
Ma come ci insegna la storia primordiale, in quel “giardino dell’Eden” dalle incredibili abbondanze e dalle fulgide gradazioni, subdola, incoscia striscia la “Bestia”.
E i piccoli naufraghi cominciano ad avere paura. Paura di quell’isola torturata dai raggi ardenti del sole, di quell’isola dalle ombre lunghe e misteriose che si contongono sull’alta montagna di granito.
E la paura piano piano sgretola l’effimera consapevolezza di un’illusoria amicizia.
Il racconto scivola precipitosamente dalla fiaba a una narrazione dell’orrore.
Assistiamo al deterioramento di ogni forma di dialogo – sordo anche al richiamo del suono incantato dello strombo – un’esplosione di malvagità e prepotenza che si nutre del piacere del sangue in una danza macabra attorno a un falò precario.
Ralph assiste solo e impotente alla sua perdita dell’innocenza, mentre Jack, il suo antagonista, trionfa nel male.
E le mosche si nutrono di merda e di sangue.
La scrittura di Willian Golding nella sua utopia negativa è potente, realistica e per nulla ermetica. Il suo stile e il suo linguaggio affronta con la potenza della ragione la natura dell’essere umano dominata da una violenza atavica, insita nell’ io più profondo.
“La natura m’induce a essere ottimista, e la ragione a essere pessimista”.
Perché la bestia che si aggira indisturbata nell’isola felice, alias il pianeta Terra che non ha confini se non l’universo con miriade di stelle, e di cui noi (naufraghi) abbiamo tanta paura altro non è che la parte oscura di ognuno di noi. Non c’è nessuna bestia nell’isola.
Forse se un giorno smettessimo di sentirci superstiti in questa terra e riuscissimo ad amarla con le sue luci e le sue ombre, forse un giorno riusciremmo ad apprezzare le sue e le nostre incredibili meraviglie smettendo di obbedire a un’autorità senza nome.
Riusciremmo ad abbeverarci nelle acque fresce eliminando questa continua sete di potere che non fa altro che produrre sporchi acquitrini di melma, gioia e delizia delle mosche, figlie della miseria e dell’ingiustizia.
Un gran bel libro…
Recensione di Patrizia Zara
Recensione 2
Il male attira naturalmente a sé.
Questo messaggio permea tutto un libro, scritto nel periodo della guerra fredda, piuttosto antipatico da leggere per via della crudezza di molte scene che sono raccontate.
La vicenda è nota: un gruppo di ragazzi inglesi finisce su di un’isola deserta in seguito ad un incidente aereo e lì, isolati dal mondo, creano una società che tende al male ed alla violenza.
Tutte le strutture sociali del mondo da cui provengono sono annullate, a parte un sorprendente diritto di esprimersi in un’assemblea che comunque diviene via via superata dal potere di fatto esercitato attraverso la forza.
Nel procedere della storia, i ragazzi vengono attratti più da ciò che soddisfa gli istinti primordiali piuttosto che da quello che fornisce utilità comune, rifiutando di adempiere quei doveri che potrebbero segnalare la loro presenza sull’isola e preferendo costruirsi un’identità da cacciatori selvaggi.
Nasce anche una embrionale religiosità fondata sulle paure comuni, volta a proteggere la comunità dalla minacciosa “bestia” che nessuno vede ma che tutti danno per esistente. Di questa religiosità fanno parte anche dei riti primitivi che esprimono a livello figurativo il ricorso ad aggressività e violenza.
La comunità dei ragazzi uccide anche gli unici due che – accidentalmente il primo, che smaschera la reale natura della “bestia” terrorizzante, e per indole il secondo – sono in grado di illuminare il gruppo con la conoscenza. Significativo è che la prima vittima, che “vede” con i propri occhi la reale natura delle paure comuni, sia ritenuto un po’ tocco e la seconda sia oggetto di scherno sino alla sua fine.
Considerata la mole di allegorie e significati contenuti nel libro, sarebbe stato facile per l’autore scrivere un testo assai simbolico e poco scorrevole; invece, ci si rende ben presto conto che i significati sottintesi sono molto ben rivestiti dalla narrazione, che rende tutto molto realistico, senza cadere nella inverosimiglianza.
E poi c’è quel fuoco della razionalità così difficile da mantenere acceso…
Recensione di Oscar Trezza
Recensione 3
Quante volte con un gruppo di amici intorno al fuoco, magari su una spiaggia di sera e con il suono di una chitarra di sottofondo, abbiamo sentito la fatidica domanda “Cosa faresti se ti ritrovassi solo su un’isola deserta?”
Aggiungiamo un particolare: “Cosa faresti se ti ritrovassi su un’isola deserta a undici anni?”
O ancora più precisamente: “Cosa faresti se ti ritrovassi su un’isola deserta a undici anni assieme a un gruppo eterogeneo di bambini e ragazzini come te, senza adulti?”
William Golding incentra il suo romanzo su un gruppo di bambini, che niente sanno di politica, di organizzazione sociale e di democrazia e che, a seguito di un incidente aereo, si ritrovano da soli naufraghi su un’isola deserta del Pacifico, invitando il lettore a osservare il loro comportamento.
All’inizio la logica propria dei bambini ha la meglio: si ritrovano in due e si chiedono se ci sono altri reduci dell’ incidente aereo. Trovano sulla spiaggia una conchiglia (la favolosa qualità dei bimbi di arrangiarsi con quello che hanno a disposizione) e la suonano come richiamo per individuare altri sopravissuti.
Si ritrovano così con un gruppo numeroso ed eterogeneo da gestire e decidono di convocare un’ assemblea in piena regola – anche loro la chiamano così – mettendo come primo punto all’ordine del giorno l’elezione del capo per alzata di mano. I ragazzini non sanno nulla di maggioranza assoluta o relativa, per loro esiste solo il bianco o il nero, e si ritrovano all’unanimità ad eleggere come guida Ralph, che fin da subito appare astuto e dotato del carisma del leader.
Un’ alternativa c’era, Jack lo sa: lui è capoclasse e capo del coro della scuola, quindi sa cosa vuol dire comandare, ma non eleggono lui. Jack la prende malissimo, ma diventa il capo dei cacciatori, perché il secondo punto all’ordine del giorno è mangiare. Uno dei compiti fondamentali di Ralph è invece accendere un grande fuoco sulle montagne ed alimentarlo, per farsi trovare da qualche nave di passaggio e così permettere la salvezza del gruppo.
Un’organizzazione che inizialmente sembra perfetta, ma…
Cosa succede se questi bambini iniziano ad avere paura? Se non riescono a trovare cibo?
Cosa succede se imparano ad uccidere?
I giovani non riescono più a gestire le regole fondamentali per una convivenza pacifica e arrivano a un punto di non ritorno. Nonostante le buone intenzioni la situazione comincia a degenerare e si fa strada un modello di comunità dispotica e primitiva, ove domina la legge della giungla, in cui i deboli sono destinati a soccombere.
Quanto velocemente questa trasformazione potrebbe avvenire in un gruppo di adulti lasciati in quelle stesse condizioni? La risposta mi fa molta paura…
Recensione di Rita Annecchino
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