IL VENTRE DI NAPOLI Matilde Serao

IL VENTRE DI NAPOLI, di Matilde Serao

 

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Nel cuore delle città non vi è posto per chi non ha reddito e istruzione. I sentimenti qui si comprano. Ma laddove tutto si mescola, dai rumori, alla musica, dagli odori al vento, dalla gioia alla paura, dal sacro al profano scintilla il cuore vero umano. Napoletano.

“Il ventre di Napoli” è forse un riflesso italiano di quello di Parigi, scritto nel 1873 da Emile Zola, per il terzo ciclo dei Rougon-Macquart. Il naturalismo francese che approda in Italia, arriva in Sicilia con Verga e Capuana. Nasce il verismo, ma a Matilde Serao le etichette stanno strette. La sua opera non si può rinchiudere in una scatola chiusa. Va lasciata respirare. A pieni polmoni. Fuori da tutti gli schemi.

 

 

Scrittrice e giornalista, Matilde Serao è nata a Patrasso nel 1856 e finisce i suoi giorni a Napoli nel 1927. Da piccola non amava lo studio, non giocava con le bambole, preferiva le trottole. Diceva di sé di essere rotondetta, senza esserne dispiaciuta. Scopre la lettura da grande, durante una malattia della madre. Legge l’opera omnia di William Shakespeare. Parallelamente scopre anche il piacere della scrittura. Inizia a lavorare al Telegrafo di Stato, mentre comincia a pubblicare bozzetti e novelle su giornali locali. Questo impiego le consente di captare informazioni, notizie, è così in grado di capire quello che vuole fare: scrivere e conoscere i segreti delle persone.

Incomincia a lavorare per delle testate giornalistiche, circa un centinaio, crea novità, come la posta che apre un dialogo con i lettori. Nel 1882 si trasferisce a Roma, dove collabora al Capitan Fracassa, al Fanfulla della Domenica, alla Nuova Antologia e alla Cronaca bizantina. Nel 1884 sposa Edoardo Scarfoglio, col quale fonda il Corriere di Roma, poi il Corriere di Napoli, dove crea una rubrica mondana, “Api, mosconi e vespe”, che diventa presto famosa, e quindi Il Mattino, di cui fu condirettrice fino al 1904, quando si separa dal marito e fonda, sempre a Napoli, Il Giorno, che dirige fino alla morte. La sua opera comprende oltre quaranta volumi fra romanzi e novelle. Per un pelo non vince il Premio Nobel.

 

 

Era troppo esuberante per i salotti mondani, ma strinse un’amicizia profonda con Eleonora Duse. Un aneddoto famoso che la riguarda ci lascia ancora oggi giorno a bocca aperta. Quando l’amante del marito abbondona la sua creatura davanti all’uscio di casa sua per poi suicidarsi in un gesto plateale, cosa fa Matilde Serao? Accoglie la neonata e la cresce come se fosse sua figlia, senza nessun rancore nei confronti della povera madre, vittima della mentalità maschilista e patriarcale, di cui probabilmente anche il marito subiva il retaggio (senza rimanerne schiacciato però, a differenza della moglie e dell’amante). Una donna, una madre, una professionista, una pioniera, una forza della natura Matilde Serao. E non si può dire che lei non fosse napoletana… La sua anima lo era! Il suo corpo trasudava l’abbondanza di chi ama, di chi non distingue fra l’amore per sé e per gli altri. È un tutt’uno. Un’unica massa. Un bel groviglio umano fatto di relazioni, scambi e aiuti reciproci.

 

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In “Il ventre di Napoli”, questo aspetto è descritto molto bene. Nella povertà dei vicoli abbandonati dagli uomini e da Dio, le madri compiono miracoli. Con i figli che muoiono, pur avendone altri tre o quattro, sono capaci di adottarne altri per amore, e li ameranno più dei propri figli: «è naturale che il popolo non possa fare carità di denaro al più povero di lui, non avendone: ma si vedono e si sentono carità più squisite, più gentili.» (p 88)

 

 

Insomma, l’avrete capito: se volete conoscere Napoli, non potete non leggere “Il ventre di Napoli”. Considerato un romanzo sociale di fine Ottocento, è una raccolta di cronache, pubblicate nel 1884 per i tipi dei fratelli Treves. L’edizione di Vito Bianco è del 1973 ed è la prima parte di una trilogia che altre edizioni hanno assemblato, come la Bur Rizzoli. Ogni capitolo è una sorta di cronaca riassuntiva di altre cronache d’epoca, basate sul degrado di una parte di popolazione napoletana.

Nel 1884 un’epidemia di colera colpisce Napoli. Le ferite di una città vengono così a colpire la coscienza nazionale. Si apre la polemica della questione meridionale. Il sindaco invia una lettera a Roma al presidente Depretis per metterlo al corrente della situazione. Matilde Serao attacca con veemenza: «Questo ventre di Napoli, se non lo conosce il governo, chi lo deve conoscere? A che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto?» (p 26)

 

 

L’incipit è ancora più incisivo: «Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, poiché voi siete il governo e il governo deve sapere tutto.» (p 25) Matilde Serao sottolinea l’incapacità della politica di fronte alle questioni urgenti della fetta di popolazione italiana (in questo caso napoletana) analfabeta e ridotta in condizioni di estrema povertà, al limite della sopravvivenza. «E, se voi siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?» (p 26)

La sua rabbia non esplode mai in attacchi troppo violenti, piuttosto la porta a vagare per la Napoli abbandonata, scoprendone il degrado e invitando il governo a fare altrettanto: «in Sezione Vicaria, ci siete stato?  [Ecco] la vera vecchia Napoli, bruna, con le case puntellate, che cadono per vecchiaia.» (p 28) Nel chiedere se le soluzioni intraprese per risanare i quartieri mal ridotti siano davvero sufficienti, «Sventrare Napoli, credete che basterà?» (p 29) prova a suggerire metodi più drastici: «Per levare la corruzione materiale e quella morale […] non basta sventrare Napoli: bisogna in parte rifarla.» (p 31)

 

 

Ecco che si manifesta impellente un’urgenza. Lo stato italiano deve intervenire: «fra le belle e buone città d’Italia, Napoli è la più gentilmente bella, la più profondamente buona. Non la lasciate povera, sporca, ignorante, senza lavoro, senza soccorso: non distruggete in lei, la poesia d’Italia.» (p 93) Ma l’intervento dall’alto procederà con lo sventramento di questi vicoli e viuzze per la costruzione di grandi arterie stradali. Uno scempio. Un insulto quasi. Perché per aiutare davvero i napoletani è fondamentale dar loro le uniche armi capaci di sconfiggere il degrado, la malattia e la povertà. Queste armi non servono per fare le guerre o opporsi al potere di riferimento. Ma per creare condizioni di vita accettabili, umane. Queste armi si chiamano cultura e istruzione.

Il “ventre” della città che Matilde Serao ci descrive è fatto di quartieri straripanti di poveri e disadattati che non hanno niente, né lavoro, né cultura, né istruzione, lasciati soli nel nulla urbano in condizioni igieniche disastrose. E colpisce la capacità dei napoletani di sopravvivenza, nonostante le condizioni avverse. Non si abbandonano in vittimismi e depressioni. Reagiscono. A modo loro. Per sconfiggere la fame, la morte e la malattia, si affidano a riti pagani e occulti. Con le loro idee e le loro abitudini, vanno avanti, giorno dopo giorno, contenti se quel giorno vanno a dormire con la pancia piena.

 

 

Ma spesso rinunciano al pezzo di pane per il gioco del lotto. «Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l’acquavite di Napoli.» (p 61) Tutti a Napoli sono devoti alla cieca speranza di una vincita inaspettata. «Il lotto ha una prima forma letteraria, rudimentale, analfabeta, fondata sulla tradizione orale come certe fiabe e certe leggende.» (p 63)

Tutti a Napoli sono un po’ artisti. Un po’ musicisti. «Questo popolo che ama la musica e la fa […] tanto che le sue canzoni danno uno struggimento al core, […] ha una sentimentalità espansiva, che si diffonde nell’armonia musicale.» (p 34) Se capaci di fare musica, non si può in nessun modo pensare che a loro piacciano le condizioni terribili nelle quali sono costretti a vivere: «non è dunque una razza di animali che si compiace del suo fango. […] Abita laggiù per forza.» (p 34)

Oh, che verità assoluta. Ancor oggi, c’è da combattere: mi vien da dire non solo a Napoli.

Matilde Serao, con la sua «opera di cronista, non di scrittore, uscito come un grido dall’anima» (p 93) cerca di parlare al cuore dei politici e della gente. Ma non solo, andando a descrivere la realtà nuda e cruda, triste e cupa della città partenopea, ecco che ci mostra una Napoli vibrante e grondante di pulsioni e emozioni, esplosiva, magica, meravigliosa.

 

Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto  

 

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