Abbiamo intervistato Enrico Pandiani con cui abbiamo approfondito la sua produzione, partendo dall’ultimo romanzo “Ombre”, e alcuni interessanti aspetti legati alla dimensione “giallo”.
Come prima domanda le chiedo di presentarci “Ombra” il suo ultimo romanzo.
Ombra è il secondo romanzo di una serie iniziata nel 2022 con Fuoco, che mi ha fatto vincere il Premio Scerbanenco. Max, Sanda, Abdel e Vittoria sono quattro latitanti francesi. Dopo l’evasione, avvenuto diciotto anni prima grazie a un incidente al furgone penitenziario che li trasferiva dal carcere di Parigi a quello di Lione, è seguita una lunga latitanza che in una decina d’anni li ha portati a Torino, dove si sono rifatti una vita, hanno trovato affetti e nuovi lavori. Vengono tuttavia scoperti da un individuo che si fa chiamare Numero Uno, che li ricatta: o faranno ciò che vuole lui o li manderà in galera. Li obbligherà a ficcare il naso in incidenti chiusi e archiviati, per i quali all’apparenza non è stato riscontrato alcun dolo. In Ombra è la morte di un sacerdote, morto in un incidente stradale mentre si recava all’arcidiocesi in bicicletta. Ventura e i suoi compagni, indagando su questa vicenda scopriranno due brutte storie di sopraffazione e corruzione all’ombra della chiesa. Come sempre succede, verranno a contatto con realtà squallide, con l’avidità che non si ferma di fronte a nulla, nemmeno quando deve portare via il poco che potrebbe aiutare chi non ha nulla.
Questo è il secondo romanzo con protagonista la “banda Ventura”, con quali aggettivi descriverebbe questi personaggi?
Sono dei reduci, persone che la vita ha maltrattato per vari motivi, che si portano alle spalle storie pesanti di delinquenza e che non hanno saputo evitare la discesa verso l’oscurità. Nel caso di un paio di loro, se la sono addirittura cercata. Ma allo stesso tempo sono quattro miracolati, perché il destino ha dato loro un’occasione e l’hanno saputa cogliere al volo. Si sono allontanati dal crimine reinventandosi nuove vite e nuove professioni. Ma il passato ti resta appiccicato e, a volte, ritorna pesantemente mettendoti nei guai. In realtà Numero Uno darà loro la possibilità di una sorta di redenzione, quasi una voglia incontrollabile di ripagare la società di ciò che le hanno portato via nella loro vita precedente. Ognuno di oro ha delle capacità che, come ben immagina il vecchio che li tiene in pugno, messe insieme ne fanno una squadra piena di iniziativa e fantasia, cosa che permette loro di inventarsi un lavoro che non sanno fare e di arrivare fino in fondo.
Lei ha nel suo curriculum narrativo altre serie come “Les Italiens” e “Zara Bosdaves”, cosa la spinge a creare nuovi scenari e nuovi personaggi e quali sono, a suo dire, le principali divergenze tra questi?
È un bisogno che è iniziato dopo i primi due o tre romanzi del commissario Mordenti. Mi sono interrogato sulla possibilità di scrivere qualcosa di diverso. È successo per vari motivi, in parte perché le storie e les italiens si svolgevano in Francia e avevo voglia di raccontare la mia città. In più le storie di mordenti sono violente e ridanciane e sentivo il bisogno di raccontare cose più serie, una mia visione del mondo e della società in cui viviamo, con tutti i suoi problemi e difficoltà. Così è nata Zara Bosdaves, un’investigatrice marloviana, dura, sentimentale, ma allo stesso tempo fragile e femminile. Da lì è venuto tutto il resto, i romanzi singoli Polvere e Lontano da casa. In pratica, la banda Ventura è un po’ il punto di arrivo della mia vicenda narrativa, anche se non credo che i personaggi si fermeranno qui.
Una serie di libri porta spesso un grande attaccamento da parte del lettore e talvolta la pretesa di avere sempre storie nuove di quel determinato filone narrativo. Quanto è difficile giostrarsi tra le richieste dei lettori e le proprie aspirazioni?
Penso sempre che quando ero giovane, e già un lettore fortissimo, se mi piaceva un libro, anche se mi faceva impazzire, non mi sfiorava nemmeno l’anticamera del cervello di scrivere all’autore per dirglielo. Una volta gli scrittori se ne stavano al loro posto, nascosti, non c’entravano nulla con i loro libri se non per averli scritti e magari, i più famosi, si limitavano a qualche rara apparizione in televisione o articolo sui giornali. Oggi è il contrario, è quasi più importante l’autore di ciò che ha scritto, come se i libri non fossero altro che strumenti utili a conoscere chi li ha scritti. In realtà, tra me e ciò che scrivo c’è una distanza siderale, io non sono i miei personaggi, non mi comporto come loro, fatico addirittura a capire perché i lettori vogliano incontrarmi, parlarmi, sentire cosa ho da dire. Questo mi fa un immenso piacere, beninteso, ma stento a comprenderlo. Sono i social network (parola orrenda) che avvicinano i due mondi, che li mettono in comunicazione. Anche se devo dire che qualcosa di interessante succede, e non sono i complimenti che ti fanno; sono le critiche. Perché le critiche, se fondate e ragionate, per me sono un motivo di ragionamento, un sistema per fare una sorta di autocritica e ragionare su ciò che scriverò in seguito. Ma non tutto ciò che ti dicono i lettori va preso per oro colato. La lettura di un libro è troppo soggettiva, troppo personale. Ciò che critica un lettore, per un altro può essere un pregio, quindi bisogna davvero destreggiarsi.
Il “giallo/noir” italiano è ben rappresentato sugli scaffali delle librerie e capita spesso di trovare dei romanzi scritti a quattro mani da autori diversi. C’è qualche nome con cui le piacerebbe collaborare, magari prestando i propri personaggi?
Non lo so se mi piacerebbe scrivere a quattro mani. Per me la scrittura è un fenomeno estremamente intimo, quasi dittatoriale. Non esiste democrazia nella scrittura, tu sei dio e ciò che scrivi è il creato e deve funzionare come vuoi tu. Però a volte mi è capitato di dover discutere con altri autori momenti dei miei romanzi nei quali non riuscivo ad andare avanti o ero indeciso o confuso sul da farsi. È quello, invece, è un momento che ha qualcosa di esaltante, perché due cervelli producono più di uno, tre più di due e via discorrendo. E le idee si allargano sul tavolo come uno tsunami. Il confronto mi piace molto, lo trovo parecchio produttivo. Ma poi davanti alla storia voglio essere da solo, voglio che sia mia, che i personaggi non abbiano distrazioni e che non esistano tensioni. Comunque, se proprio dovessi scrivere un libro a quattro mani, tanto varrebbe farlo con Ken Follet, così almeno sarei certo delle vendite.
Quali sono le sue principali fonti di ispirazione? Intendo situazioni di attualità, luoghi o magari qualche autore più o meno recente?
In linea di massima le idee ti vengono da ciò che ti succede attorno, da quello che leggi sui giornali o vedi al telegiornale. Ma anche leggendo saggi su argomenti che ti interessano o parlando con persone che si muovono in ambienti potenzialmente interessanti. Ombra è nato da un incontro con un amico giornalista e un saggio che aveva scritto e il cui argomento mi ha fulminato. Ma anche il volontariato può essere pieno di stimoli. Se immagini che a questo mondo la maggior parte delle persone subisce delle ingiustizie, a volte gravissime, e la cosa ti disturba e ti indigna, allora ti viene voglia di raccontare ciò che hai saputo. La politica, il sistema con cui abbandona i cittadini, la corruzione, lo scollamento dalla realtà, sono altri argomenti che vale la pena di studiare e che fanno venire in mente tante storie. Io non credo che il compito di uno scrittore sia dare risposte, ma piuttosto quello di mettere sul tavolo alcuni interrogativi, di dare al lettore qualcosa su cui pensare e interrogarsi. Tanto, la verità non esiste.
Oggi è indubbio che i Social siano un mezzo di comunicazione e di condivisione tanto forte quanto pieno di contraddizioni e complicazioni. Qual è il suo rapporto con questa realtà?
Amore e odio. Cerco di starne lontano, ma poi ci rifinisco dentro. E questo perché mi piace essere polemico e amo gettare sassi nello stagno per vedere dove arrivano i cerchi. In realtà li trovo totalmente inutili. Ho più o meno 5000 amici, su Facebook (l’unico che frequento) quindi, in teoria, visto che mi hanno chiesto l’amicizia dopo aver letto i miei libri, quando ne esce uno nuovo, nel giro di una settimana dovrei averne vendute almeno 4500 copie. Invece non è così. Se penso a ciò che diceva Umberto Eco, ossia che i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, quando sono su Facebook mi sento un vero imbecille.
Come ultima domanda le chiedo quali sono gli aspetti di Torino, città ben presente nella sua narrativa, che non tutti conoscono o che non arrivano mediaticamente a chi non la conosce?
Io amo tantissimo la mia città, è un luogo di una bellezza quasi premeditata, che a volte ti ritrovi davanti come d’incanto. È una metropoli a livelli, che può essere avvolgente e respingente nello stesso tempo. È capace di stupirti anche se ci abiti da oltre sessant’anni, come quando Rita Hayworth solleva la testa la prima volta che compare in Gilda e tu rimani di stucco. Sembra quasi una boutade, ma non ha nulla da invidiare a Parigi, ed è altrettanto stimolante. E non soltanto il centro, con i suoi viali alberati e le grandi aperture; anche le sue periferie hanno un fascino che viene dalla loro origine, dalla stratificazione, dalle persone che le abitano. Trovo che Torino sia un luogo estremamente letterario, sa mescolare una profonda dolcezza a una malinconia vagante, appena scalfita dalla durezza. Mi piace ambientare le mie storie in questa città, è come muoversi alla base di una piramide sociale dove in cima vivono poche persone estremamente privilegiate e alla base coloro che hanno poco o nulla. E questi strati molto difficilmente sono soggetti a un qualche tipo di osmosi. Per lo meno, succede sempre più di rado ed è più facile cadere verso il basso. Insomma, è una città piena di storie, basta riuscire a raccoglierle per poterle raccontare.
Intervista di Enrico Spinelli
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