Intervista a Valeria Valcavi Ossoinack, autrice del testo: “L’eredità Rocheteau”
Com’è nata l’idea di scrivere un romanzo che parlasse di “famiglia”?
Non so mai come nascono le mie idee. Un giorno sei lì che fai qualcos’altro e succede. Le idee non vengono mai a tavolino. Perché la famiglia? Perché, dietro le apparenze, può nascondere molte sorprese. Non sempre positive, purtroppo. Come ho scritto nel prologo, il romanzo è “una storia di famiglia, dove niente è ciò che sembra”. Ci sono famiglie dove forse sarebbe meglio non essere mai nati. Questa è una di quelle.
Il personaggio di Claire dà voce alla seconda età di una donna, ma è dominata dai rimpianti piuttosto che dai sogni. Cosa ne pensa al riguardo?
Penso che Claire dovrebbe fare pace con il suo passato e con la sua età. Tanto non può farci niente: il passato non ritorna e il tempo passa per tutti. È importante accettarsi per quello che si è. I rimpianti ti impediscono di goderti quello che hai. E non sto parlando di beni materiali, ma di affetti, di emozioni, delle persone che hai vicino e che ti vogliono bene, delle piccole cose di ogni giorno.
In quale personaggio si rivede maggiormente? (per scelte e valori)
In tutti i personaggi femminili del romanzo c’è qualcosa di me. E anche in qualcuno di quelli maschili, ma è sempre così: in fondo, quando si scrive, si scrive di sé stessi, anche se non sembra, anche se si parla d’altro. Forse mi rivedo un po’ di più in Charlotte, perché rappresenta la mia parte più irrequieta e indipendente. È una donna che non si fa dettare le regole da nessuno, perché le regole le fa lei, a costo di pagarne il prezzo. E più passa il tempo, più mi sento Charlotte.
L’arte, per il personaggio di Charlotte, sembra in qualche maniera rimetterla al mondo. È d’accordo sul fatto che l’arte diluisca i mostri e i dispiaceri della vita?
L’arte elabora la vita. Non so se diluisca i dispiaceri. Diciamo che spesso crea una dimensione parallela dove, parlando del romanzo, Charlotte si rifugia per sfuggire alla realtà. Ne ha bisogno per continuare a vivere. Quando, a un certo punto della prigionia, ricomincia a dipingere, per lei “è come riprendere a respirare”.
Nel suo libro la protagonista vive una sorta di “sindrome di Stoccolma”, com’è nata quest’idea?
Ho seguito spesso le cronache dei rapimenti ed è un argomento che mi ha sempre appassionata. Non so spiegare il perché, però è così. Parlando della sindrome di Stoccolma, credo che sia una conseguenza quasi naturale: quando sei nelle mani di qualcuno e la tua vita dipende da questo qualcuno, finisce che hai bisogno di sentire qualcosa che non sia odio. Magari non è amore, ma è sicuramente speranza.
Il testo presenta personaggi agnello e personaggi lupo, poi la realtà si ribalta. Quanto di tutto ciò si evince nella vita di tutti i giorni?
Credo che tutti abbiamo conosciuto lupi travestiti da agnelli. E abbiamo conosciuto persone che erano molto meglio di come apparivano. Nel romanzo, ci sono gli uni e gli altri. E i loro legami familiari rendono tutto più intenso e drammatico.
Progetti di scrittura futuri?
Ancora non ho fatto programmi precisi. Però Parigi è una città meravigliosa, pieno di fascino, di misteri e di storie da raccontare. Chissà, magari ce n’è un’altra che aspetta solo di essere raccontata… Credo che lo scoprirò presto.
Perché ha deciso di scrivere proprio un giallo/noir?
Perché è un genere che mi ha sempre appassionato: il mistero, l’intrigo, il lato oscuro che c’è dentro di noi… E dopo averne letti tanti, ho deciso che fosse arrivato il momento di scriverne uno io. Posso dire che mi sono divertita, che è la cosa più importante quando scrivi. Certi colpi di scena, certe svolte nel racconto hanno spiazzato anche me. Quando l’ho iniziato, non mi aspettavo che andasse a finire così. Sono stata io la prima a stupirmi. E spero che succeda anche ai miei lettori.
Di Lisa Di Giovanni
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