Abbiamo intervistato lo scrittore toscano Giampaolo Simi con cui abbiamo parlato del suo celebre personaggio Dario Corbo ma anche della sua ultima opera “Sarà Assente l’Autore” che ci ha consentito di fare alcune interessanti riflessioni sul mondo della narrativa.
Per cominciare le chiederei di presentarci il suo ultimo romanzo, uscito qualche mese fa, “Sarà assente l’autore”.
In estrema sintesi, è una storia che prende in giro gli scrittori che si credono Proust, gli scrittori di gialli e gli scrittori di gialli che si credono Proust.
Il protagonista stringe un patto “faustiano” con un editore mefistofelico, rinunciando di fatto alla propria anima artistica. Le chiedo quanto è difficile per un aspirante scrittore avventurarsi in questo mondo e mantenere una propria dignità e che idea si è fatto dei lettori di oggi.
Se per “anima artistica” si intende ciò che arriva dal proprio mondo interiore, be’, tutta la vita in fondo è cercare di non isolarci dagli altri senza rinnegare tutto quello che sentiamo di essere. La scrittura non sfugge a questo meccanismo. Se vogliamo scrivere per essere letti, bisogna capire cosa si legge e come si legge intorno a noi. Se si vuole ostruire un ponte bisogna sapere dov’è e com’è l’altra sponda. Poi, certo, com’è questo ponte lo decido io…
Parlare dei lettori in generale è impossibile. Molto alla grossa, in Italia persiste uno zoccolo duro di lettori forti molto colti ed esigenti. E che, tramite il lavoro delle librerie indipendenti, si è ritrovato, organizzato e ora può decretare il successo di testi niente affatto commerciali. Il pubblico più vasto, quello che legge due o tre libri all’anno, ma che è quello che decide le grandi tirature, mi sembra invece un po’ impigrito. Oggi questi lettori deboli non supererebbero le prime cento pagine de “Il nome della rosa”. È come se pretendessero di fare un’escursione in montagna, ma senza camminare tre ore in salita. Ma elevarsi e godersi un panorama straordinario costa fatica, che tu lo faccia con le gambe o con il cervello.
Un passaggio interessante del libro riguarda un dibattito tra letteratura e narrativa. Uscendo dal contesto della storia, non trova che questo frequente confronto tra le due dimensioni (quasi come se esistessero scrittori e lettori di serie A e di serie B) sia pretestuoso e superficiale?
È uno dei tanti dibattiti surreali che rendono il nostro un Paese vecchio e conservatore. La mia idea è che sia un dibattito mantenuto artificialmente in vita per una ragione precisa: fa comodo. Fa comodo agli scrittori “letterari” per giustificare le proprie vendite scarse, fa comodo agli scrittori di best seller per dimostrare di avere ragione ad abbassare continuamente il livello. Io disprezzo profondamente questa polarizzazione, perché entrambi le fazioni, partendo da posizioni opposte, ritengono alla fine che molti lettori siano degli imbecilli e che non ci sia modo per elevare il loro gusto. Anzi, che alla fine è più comodo per tutti abbassarlo. È una sceneggiata in cui in realtà i contendenti la pensano alla stessa maniera e si reggono disperatamente l’uno all’altro.
In un suo racconto distopico Roald Dahl immagina una società dove un’intelligenza artificiale, da contratto, si sostituisce agli scrittori nel realizzare i loro bestseller. Quanto siamo realmente lontani da una dimensione così drammatica?
Se non ci siamo molto lontani, non è per colpa delle macchine. Ma di noi umani. Narrare, come tutte le attività, ha delle regole. Ma se narrare significa semplicemente fare un compitino che rispetti queste regole, bene che arrivi l’AI a farlo. Lo farà meglio e in minor tempo e ci libereremo di tante storie inutili e ripetitive. Ma se narrare è coraggio, scoperta, condivisione di esperienze, speculazione, sovvertimento delle regole (ma, attenzione, non si possono sovvertire regole che non si conoscono), l’AI non ce la farà mai. Quindi sono piuttosto tranquillo.
Quando i miei librai di fiducia della cartolibreria Universo di Firenze mi hanno fatto il suo nome mi hanno consigliato “I giorni del giudizio” come opera per conoscerla e devo dire di ritenerlo un ottimo compendio della sua proposta narrativa (ed è ancora oggi il mio preferito), lei cosa ne pensa?
Intanto, grazie. La mia idea era raccontare un crimine iniziando esattamente dove tantissimi gialli finiscono: con la formulazione di un’accusa verso qualcuno. Il quale, va ricordato, può benissimo ritrattare la confessione (specie quelle di tanti gialli, rese davanti a un agente di polizia giudiziaria e senza un avvocato). Non è vero quindi che a quel punto si è fatta giustizia. Il bello deve ancora venire. E io volevo raccontare quello. Anche perché in una Corte d’Assise sono chiamati cittadini comuni, come noi tutti, estratti a sorte fra migliaia di altri. E quando si è chiamati a essere giudici, è inevitabile finire a giudicare se stessi. Mi è parsa una bella prospettiva per raccontare la ricerca della verità su un delitto. E poi quei sei giudici popolari io li amo tutti, indistintamente.
E veniamo a Dario Corbo, un personaggio piuttosto peculiare e articolato, a mio avviso difficilmente caratterizzabile. Quali parole userebbe per descriverlo?
È un radical chic. Non perché lo sia nell’accezione data da Tom Wolfe, ma perché oggi basta azzeccare i congiuntivi, formulare un pensiero minimamente articolato, conservare un po’ di senso del ridicolo e l’orda populista ti dipinge subito come uno che vive in un attico a Manhattan. Dario poi è anche un ex giornalista, categoria accusata di qualsiasi nefandezza. Quindi è uno che si trova a remare controcorrente e a doversi reinventare, oltre che risolvere la marea di casini che la vita gli rovescia addosso.
Nell’ultimo romanzo lo abbiamo salutato al momento di una scelta tutt altro che scontata, in generale possiamo vedervi un personaggio in continua formazione?
È esattamente così. Uno che a cinquant’anni vorrebbe forse anche tirare il fiato, ma non può farlo. Ne “Il cliente di riguardo”, quarto e ultimo romanzo della serie (esce il 10 ottobre), dovrà accettare tutte le conseguenze delle sue scelte. Rischiando la vita e affannandosi a difendere le persone che ama.
Nelle sue opere sembra che il grande assente sia spesso la “giustizia”, il lieto fine (e in questo Nora Beckford è un esempio quasi paradigmatico), possiamo leggervi di fondo una critica alla nostra realtà dove spesso fatti anche efferati diventano quasi dei “cantieri abbandonati” e non si intravede neanche l’ombra di una fine?
Diciamo che essere nato e vissuto in Italia aiuta molto a capire quanto la strada verso la verità e la giustizia sia lunga e tortuosa. Quante ombre, quante zone grigie, quanti fantasmi aleggiano sullo sfondo di certe vicende. Il romanzo in uscita racconta proprio di questo. Di ombre e fantasmi.
Rimanendo sul tema giustizia, oggi i Social Network sembrano sempre più spesso aule di tribunale, anche piuttosto severe, qual è il suo rapporto con questa dimensione?
Da essere umano li avrei abbandonati già da un po’. Da scrittore, non posso defilarmi da uno strumento di comunicazione con i lettori. Quindi ci butto un occhio, li uso per informare di quello che faccio, ma cerco di scriverci sopra il meno possibile. Chi vuol sapere cosa penso può leggere i miei libri o venire agli incontri. Ci si guarda in faccia, ci si stringe la mano, si beve una birra insieme. È molto meglio.
Per concludere una curiosità: nel romanzo “La ragazza sbagliata” menziona l’ultimo album di Fabrizio de Andrè, “Anime Salve”, sostenendo che Nora Beckford ci sarebbe stata benissimo dentro… l’idea che mi sono fatto è che in realtà tutti i personaggi principali dei suoi romanzi potrebbero essere protagonisti delle canzoni di quel disco e vorrei sapere se condivide questa impressione.
Sì, perché le Anime Salve sono tutt’altro che fuori pericolo. Sono anime che si raccomandano alla fortuna o a qualche divinità perché sanno di intraprendere un viaggio con il mare grosso. E sanno anche, purtroppo, che in questo viaggio potranno ritrovarsi molto spesso soli.
Di Enrico Spinelli
I GIORNI DEL GIUDIZIO – Giampaolo Simi
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