
Intervista esclusiva al Capitano Bruno Arcieri: eroe indiscusso del giallo storico italiano
“Grazie a Leonardo Gori abbiamo potuto intervistare il Colonnello Bruno Arcieri e ripercorrere alcuni momenti salienti della sua vita”

Prima di tutto grazie per aver accettato di rispondere alle mie domande. Direi di partire con l’ultima avventura da lei raccontata a Leonardo Gori, “Il vento di giugno“. Che aria si respirava in quel periodo? Con la caccia ai fascisti veri o presunti sembrava quasi di trovarsi sotto tiro di un cecchino – cosa per altro da lei provata poco tempo prima negli ultimi giorni dell’occupazione fiorentina – non trova?
Buon giorno. Non avrei mai pensato che le mie vicende personali, a volte pubbliche, potessero suscitare l’interesse dei lettori di romanzi. Ho cercato sempre di fare il mio dovere, mantenendo il più possibile rettitudine ma anche compassione. Mi sono sempre interessato di letteratura, ho letto anche alcuni romanzi di spionaggio – Ambler, Deighton, soprattutto Greene e ultimamente Le Carré – trovandoli a volte molto buoni ma certo lontani dalla professione vera, che per lo più è noiosa.
L’aria del 1946 era piena di spifferi contraddittori: sollievo per la fine della carneficina e della dittatura, e insieme speranza per il futuro, ma con la miseria, l’Italia a pezzi e molte storture. Per quanto riguarda la caccia ai fascisti… vede, come al solito, un intento giusto, direi sacrosanto, diventava spesso il paravento per vendette personali, che spesso non avevano a che fare con la politica. E poi, si colpivano i più deboli. Non sempre, ma spesso… Ha visto i due film di Luigi Zampa, “Tempi facili” e “Tempi difficili”? Li riveda, sono molto istruttivi. I poveri cristi, nel bene e nel male, sono sempre i più colpiti, e invecchiando mi sono sentito sempre più vicino a loro.
Lei è stato Capitano dei Carabinieri mantenendo dei principi umani che l’hanno tenuta lontana dalle azioni vili del Regime, quanto è stato difficile preservare la propria integrità? E quando ha percepito in maniera irreversibile lo scollamento tra la sua etica e il dovere imposto dalla divisa?
Lei è certo che io sia riuscito a mantenermi davvero integro? Di certi fatti non posso parlare, e comunque stando col regime più nessuno è incolpevole, scrisse un grande poeta. D’altronde, veda, sono stato molto fortunato. All’epoca in cui il Comandante mi cooptò nel Servizio, il cancro del Fascismo non aveva ancora pervaso ogni fibra della Società. Perfino l’Ammiraglio Canaris, il capo dell’ABWER, l’Agenzia tedesca, era antinazista, e fece una fine molto brutta lei lo saprà certamente. Io invece fui sempre protetto dal Comandante, appartenevamo a quella che poi fu definita la “fronda”, cercavamo di limitare i danni. Poi io feci la mia parte, combattendo contro la Repubblica Sociale, nelle fila del Regio Esercito. Scelsi il male minore. Ma non ho le mani nette, non sono una verginella. Fui messo a dura prova.
Ha mai percepito la sensazione di trovarsi in un gioco troppo più grande di lei? E se sì qual è stata la missione che l’ha fatta sentire più in difficoltà in tale senso?
Tutto quanto, gentile amico, è più grande di noi. Siamo piccoli uomini e donne, sempre in lotta per non farci schiacciare; e i più retti, coloro che cercano di mantenere una decenza morale, devono stare attenti a non farlo con gli altri. Ma il tempo ci passa sopra, ci mastica e ci sputa.
L’episodio che mi ha messo più a dura prova risale al 1945, agli ultimi giorni di guerra, nel milanese. La fucilazione di un innocente. Non ne vorrei parlare adesso, per pudore e per dolore. Magari in un prossimo futuro cercherò di metter giù qualche rigo.
Nel corso delle sue missioni ha girato molto l’Italia e non solo. Quali sono state le esperienze che l’hanno segnata di più?
Senza dubbio risalire l’Italia, da Salerno a Milano, combattendo contro i nazifascisti. Ho visto orrori indicibili, ho partecipato a eventi che non ho piacere si sappiano. Dal punto di vista strettamente fisico, però, l’esperienza più dura è stata andare a piedi da Roma a Salerno, nel settembre del ’43, dopo aver partecipato agli scontri di Porta San Paolo, l’avvio della resistenza. Fui anche messo al muro due volte, la scampai per miracolo. Ma forse, ripensandoci, adesso che sono vecchio – lei mi è comparso davanti adesso, nell’aprile del 1970: ho sessantotto anni e non me ne faccio una ragione, me ne sento diciassette – adesso che la vita è tutta alle spalle, dicevo, posso dirle che i momenti più difficili sono stati quando ho capito che il Servizio era inquinato da trame oscure. È stato allora, che ho perso ogni fiducia e ho rivoluzionato le mie idee e il mio sentire. Piazza Fontana, due anni fa, è stata la ferita più grande. Perché io so: non ne ho le prove, ma so…
Nel suo lavoro si è trovato spesso a fare fronte a tradimenti e doppiogiochismi, dunque le chiedo, chi è più pericoloso per lei, il vecchio nemico o il nuovo amico?
Credo di aver risposto poc’anzi. Dagli amici mi guardi Iddio… Eccetera eccetera. Al fronte, col fucile in mano, il nemico è lì davanti, non ci sono giochi di specchi, tutto è molto chiaro. Tragico, ma a suo modo rassicurante. Questa Italia invece è un verminaio, si respira aria di fogna, come ha scritto il povero Guareschi, scomparso troppo giovane pochi anni fa. Tutti pensano che fosse un reazionario, invece aveva colto il marcio di questi anni. Ma non voglio rattristarla. Ho avuto una vita piena, sono felice.
Tornando alla sua missione romana recentemente raccontata, a un certo punto è arrivato a dire “Basta morti!”, ma il sistema sembra non averne abbastanza, come se lo spiega?
È un cupio dissolvi, il piacere perverso dell’autodistruzione. La natura umana è maligna nel profondo, il sangue chiama altro sangue. È la lotta contro questo dèmone, che dobbiamo vincere, ogni giorno della nostra vita.
Se dovesse indicare le cosiddette “pietre miliari” nel suo percorso umano e professionali quali sarebbero?
La prima “pietra” è quando ho capito che la dittatura è un male che corrode l’essere umano nel profondo, che lo rende vigliacco, gli fa tradire amici e parenti; che la paura indotta dal sistema è la vera forza con cui egli ci controlla, e che ci rende inetti. Ho combattuto il Fascismo per questo, riconoscendolo come un fenomeno trasversale, che si annida negli insospettabili. Il Fascismo è un modo di essere, oltre che un fenomeno storico.
La seconda “pietra” è stata quella che ho detto prima: l’accorgermi, anni fa, del male che stava avvelenando il Servizio e la politica italiana in generale. Mi sono progressivamente allontanato dall’ambiente, in cui oltretutto non avevo fatto una gran carriera. Adesso sono in pensione come colonnello, ma mi hanno promosso alla vigilia del ritiro.
La terza “pietra”, la più bella, è stato riuscire a resistere alla naturale inerzia portata dalla vecchiezza, che di solito spinge a rifiutare a priori il nuovo. Amante del jazz da sempre, ne avevo rifiutato gli ultimi sviluppi, poi per un insieme di cose di cui lei forse sa già, ho apprezzato anche il pop. Jimi Hendrix, i Beatles, i Rolling Stones… Sono in pochi, sa, quelli della mia età che non li disprezzano. Di questo, sono orgoglioso. Ho capito che i nuovi giovani, i “capelloni” sono sì diversissimi da noialtri delle vecchie generazioni, ma sono più generosi di noi. Spero tanto che sappiano costruire un mondo nuovo, come vanno dicendo nelle loro canzoni.
Lei ha nominato la musica Jazz. Da appassionato le chiedo cosa le piace di più di un genere tanto vasto nelle sue sfumature e caratteristiche?
Veda, io ho scoperto il jazz per combinazione, poco dopo l’altra guerra, quando arrivò in Europa e anche Italia con i dischi dell’Original Dixieland Jass Band di Nick La Rocca. Io sono del novecento due, all’epoca avevo quindici anni, l’età in cui si fanno le prime grandi scoperte. Erano gli anni tumultuosi della modernità, delle lotte sociali, poco prima dell’avvento del Fascismo. Fu un miracolo, la scoperta di quella musica assolutamente nuova mi catapultò in un mondo stupefacente, in tutti i sensi, anche quello… chimico. Corsi dei pericoli. Andavo nei locali notturni di Milano e anche di Torino, dove si esibivano le prime orchestre italiane. Un mondo oggi difficile anche solo da immaginare. L’antro dei pirati, la caverna di Alì Babà, gli occhi delle ragazze segnati dal bistro.
Seguii il jazz nella sua frenetica evoluzione, anche sotto la dittatura, procurandomi spesso i dischi tramite canali sotterranei… prima la scoperta di Armstrong, poi quella di Ellington. Coleman Hawkins, che nei ’30 fece un lungo giro in Europa. Un disco lo comprai a Parigi, ricordo, nel ’38, mentre ero in missione illegale, come si dice nell’ambiente.
È ormai consolidata la sua amicizia con Franco Bordelli, che in un momento particolare della sua vita le è stato particolarmente di aiuto. Quali sono le caratteristiche che più ammira del Commissario?
Oh, il tenero commissario Franco Bordelli… Un bel tipo! Molto fuori delle righe. È andato in pensione di recente, lo sa? Ufficialmente si è ritirato nella sua nella casa in campagna, fa lunghissime passeggiate nei boschi, poi ci sono le magnifiche cene con gli amici… Ma mi arrivano voci sommesse che non abbia affatto deposto le armi di sbirro, anzi… Se lo scoprissero rischierebbe grosso, eh! Ma Franco ha un gran cuore, riesce a mantenere un miracoloso equilibrio. In lui ammiro il grande amore per la Giustizia, che non sempre si identifica con la Legge, o meglio con la sua interpretazione letterale. Io e lui siamo diversissimi, non farei mai certe cose che fa lui, ma nel profondo abbiamo valori uguali.
Diciamo anche che grazie a lui ha scoperto il piacere e l’arte della cucina. Le sue “sfide” con il Botta nelle cene bordelliane sono quasi leggendarie.
Eh, veda, appunto a quelle mi riferivo. Sa una cosa? Temo che il commissario mi sopravvaluti oltre misura, per lo meno come cuoco! E penso proprio che il Botta, per non dargli un dispiacere, taccia su quel che pensa di me, quando sono ai fornelli! D’altra parte lo faccio anch’io. Ma siamo tra amici, è bello anche fingere, in certi casi.
Nelle sue avventure ha visto Firenze piegata dai bombardamenti e, successivamente, dall’alluvione, e in entrambe le volte l’ha vista rimboccarsi le maniche e rialzarsi. Si è mai chiesto dove sia la forza di questo popolo nel reagire ogni volta alle ferite della propria città? E guardando al suo passato c’è qualcosa della Firenze anteguerra che le manca?
È la forza del popolo di Firenze, certo, del suo tessuto sociale, fatto di grandi e piccoli commercianti, di artigiani e artisti. È la forza dello spirito bizzarro, beffardo, sarcastico verso sé stesso, ma che non si lascia sopraffare. La fiorentinità migliore. Ma direi che è la forza degli Italiani. Tutti si sono risollevati dall’abisso, non trova? Forse, oggi, nel 1970, vedo nella mia città, ma direi meglio nelle mie città – Firenze, Milano, Roma – una modernità non sempre positiva, come se qualcosa di estraneo alla nostra umanità stesse iniziando a minarne le fondamenta… Sento quasi scricchiolare le antiche mura. A volte il soffio del vento, nelle stradine del centro, somiglia a un lamento. Spero che la città sappia mantenere la propria forza vitale.
Oggi vorrebbe gestire in santa pace la sua trattoria nel centro di Firenze eppure continuano a cercarla e a invischiarla in qualche intrigo, il suo passato non vuole lasciarla stare?
Mi vengono a cercare di rado, ormai. In questo momento ho solo un piccolo caso, tra le mani, ma piuttosto uggioso… Non gliene posso parlare, è una promessa che ho fatto idealmente a un mio amico ricoverato all’Ospedale di Careggi. Però, ogni giorno che passa, sogno soprattutto il mio studio, nella casa torre che prima o poi io e Marie dovremo lasciare, perché non è una casa per vecchi: troppe scale… Sogno il mio studio pieno di libri e la mia poltrona, dove pensare, fantasticare…
Lei, pur essendo uomo di mondo e di esperienza, non si è mai sentito di salire in cattedra per elargire consigli di vita. Nonostante questo se la sentirebbe di dire qualcosa ai giovani, dei quali ha dimostrato di avere grande fiducia.
Credo di aver già detto dei giovani, poco fa. Sono il futuro, com’è ovvio. Li invito a non lasciarsi scoraggiare. Scendano pure in piazza, ma non si lascino strumentalizzare. Lottino per gli ideali in cui credono. Non muoiano dentro.
Un’ultima domanda. Si chiede mai come sarebbe stata la sua vita se quel giorno di primavera del ‘38 a Firenze non avesse incontrato quella bella ragazza bionda pronta a commettere un omicidio?
Forse la mia vita “pubblica”, quella relativa al mio mestiere, sarebbe stata la stessa. Certo, bisogna vedere se Elena sarebbe stata in grado, senza di me, di realizzare il suo intento. A costo della sua vita, la sorte del mondo, non certo solo della mia, sarebbe stata ben diversa!
Ma la mia vita privata, quella sì, sarebbe stata un’altra. D’altra parte lo vede: vivo qui, con una splendida compagna, che non è quella ragazza bionda, ormai un fantasma del passato. Tutto cambia, nella vita, tutto si rinnova.
Grazie per le sue stimolanti domande. Ma ora una gliela faccio io. Mi tolga una curiosità: da dove viene lei? Non ho sentito nemmeno suonare il campanello di casa, mi è comparso all’improvviso nel salotto. ed è vestito in maniera un po’ strana…
Intervista di Enrico Spinelli
La narrativa gialla vista dalla parte di chi indaga – Il Capitano Bruno Arcieri
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