IO, BEATRICE CENCI Una ragazza romana, di Nicoletta Manetti (Edizioni Pontecorboli – settembre 2024)
Consiglio di Sylvia Zanotto
Quale il vero crimine? Quello di Beatrice? Quello del padre? O quello del papa?
Una celeberrima poesia di Ben Jonson (1573 – 1637) inizia con questi versi: «Hai forse visto crescere un giglio bianco / Prima che rozze mani l’abbiano toccato?». Sono versi toccanti e perfetti per descrivere chi era la nostra protagonista. Si chiamava Beatrice Cenci, nacque nel 1577 e fu decapitata a soli 22 anni nel 1599. La sua vita tragica, così come la sua morte ingiusta avevano acceso l’ira del popolo romano, sceso in piazza il giorno dell’esecuzione. Ma non servì a modificare la legge impietosa, che dopo la morte in piazza di Beatrice, del fratello e della matrigna, vide anche l’esecuzione di un altro innocente, Giordano Bruno, condannato per altri crimini come lo studio, il pensiero, la scrittura.
Ben Jonson, era coetaneo di Beatrice Cenci. In territorio anglosassone avrà udito qualche eco di questa storia che rimbalzò per tutta Europa? Mi vien quasi da sospettare che l’ispirazione poetica abbia oltrepassato la Manica, cavalcato le terre di mezzo e raggiunto il cuore dell’innocente fanciulla, segregata, prima in collegio, poi nelle mura domestiche, infine in prigione.
Ma che dico? Il poeta inglese non aveva in mente una donna precisa quando scrisse questi versi, tanto meno la nostra Beatrice; ma la sua essenza descrive l’essenza della fanciulla privata di tutto prima ancora di sbocciare. Infatti, l’intero poemetto è un inno all’innocenza, alla fugacità della vita e della purezza che spesso le mani dell’uomo deturpano e rovinano sotto l’insegna della bieca ignoranza supportata da egoismi fanatici. Dopo le violenze nei confronti della figlia, si giustificava così il padre: «non è peccato quel che facciamo. Tutti i santi sono nati da unioni tra padre e figlia, sì proprio così, tutti i santi…» (p 27) O, all’abate Guerra che ne chiede la mano, urla: «È la mia amante» (p 33). Così, «quattro parole scagliate come un coltello.» (p 33)
La sua ignominia non aveva limiti, malato di rogna, pretese le cure dalla figlia e le ottenne con un ennesimo atto di violenza estrema: «[…] uscì dall’acqua come una furia. Grondante sui mattoni, si slanciò ad afferrare lo scudiscio e mi batté fino a farmi cadere sul pavimento bagnato.» (p 43)
Il conte Francesco Cenci era un uomo senza alcun scrupolo, ignorante di amore e privo di senso paterno. Non amava nessuno dei suoi numerosi figli e usava dire: «non avrò pace finché non li avrò visti morti tutti» (p 35)
Un poco di pace e qualche attimo rubato alla prigionia e alle sevizie domestiche, Beatrice le trova nella lettura. Con la complicità dei guardiani, durante il giorno riesce in alcuni periodi ad uscire dalla cella e questo le consente di scoprire la biblioteca della rocca. S’imbatte così nei volumi che contengono le novelle del Boccaccio e ritrova Lisabetta da Messina, la cui storia aveva conosciuto in collegio nei versi della nobildonna laziale, nata a Marino nel 1490, la poetessa Vittoria Colonna. E non posso non citare i versi di John Keats che secoli dopo riescono a narrare con delicatezza e incanto quel che in cuor suo Lisabetta (e anche Beatrice) provava: «Ed ella dimenticò le stelle, la luna e il sole, / dimenticò l’azzurro al di sopra degli alberi, / dimenticò le valli dove scorrono le acque, / dimenticò la fresca brezza autunnale;/ella non sapeva quando il giorno tramontava, / il nuovo mattino ella non vedeva». Un amore vietato, un omicidio, una testa sotterrata nel vaso del basilico: «E cosi con sottili lacrime sempre lo nutriva, / per cui rigoglioso e verde e bello esso cresceva / e odorava con più fragranza degli altri.»
Ma per Beatrice il gesto diventa esagerato, quasi a presagire l’omicidio che forse, forse, inizia già a premeditare, in preda alla disperazione più nera: «Annaffiare era diventato per me come rovesciare, insieme all’acqua, anche i pensieri, E lo bagnai così tanto che cominciò a impallidire. E, a poco a poco, marcì.» (p 48)
E poi conosce l’amore Beatrice e questo accende in lei la consapevolezza del suo aspetto fisico: «tramite il suo sguardo e le parole, mi rendevo sempre più conto di essere bella, molto bella. Mi guardavo in ogni specchio, mi riflettevo in ogni cisterna, e gioivo dei riccioli biondi, della pelle
d’avorio, del collo lungo.» (p 52)
L’amore, quando non si conosce, apre porte che dovrebbero rimanere chiuse. L’autrice descrive in queste righe, comportamenti che sono comuni a tante donne, che scoprono il desiderio amoroso. Spesso accadeva in passato, ma, ahimè, ancora oggi accade, che non avendo mezzi per capire i propri sentimenti si scambi l’euforia dei sensi con l’amore. E poi per pietà si chiudono gli occhi e si subisce quello che ormai non ci attira più. In Beatrice, la pietà si maschera di necessità per la sua sopravvivenza: «Non mi piaceva più stare con lui […] Ma lui aveva perso la testa per me […] Non potevo perdere un complice» (p 52)
Un complice per cosa, vi chiederete? Un complice per la propria liberazione dal padre, che obbliga Beatrice a prendere «la decisione», (titolo del capitolo a p 56). Il male non ha limiti. «Non c’era persona a Roma che non conoscesse le malefatte perpetrate dal Conte Cenci anche nei confronti della sua famiglia.» (p 65) E l’omicidio ebbe luogo. Goffamente, dopo svariati tentativi e senza possibilità per Beatrice di salvarsi.
Il giorno dell’esecuzione, c’erano tutti in piazza, Il Caravaggio, Orazio Gentileschi. Persino Artemisia, all’epoca di appena 6 anni. E la narratrice, si rivolge direttamente a lei: «Urlasti al momento del colpo, ti mettesti le mani davanti agli occhi. Ma apristi le dita. Forse presagivi che avresti dovuto fare i conti anche tu con la violenza.» (p 130)
Oh il male! In San Pietro in Montorio la seppellirono. Una tomba senza nome. Non aveva più diritto a un nome visto i suoi reati. E il male tornò. I soldati francesi: profanarono la tomba, dopo aver staccato la Trasfigurazione, che tanto piaceva a Beatrice adolescente: «ogni anno rimanevo incantata davanti alla Trasfigurazione di Raffaello, sopra l’altare maggiore. Sapevo che era l’ultima opera del maestro, il suo messaggio finale, che non ebbe il tempo di vedere terminato. Mi piaceva la contrapposizione, il contrasto. Nella scena in alto Gesù no solo era illuminato da Dio, ma si faceva lui stesso luce per l’umanità, In quella in basso, l’oscurità del male si contorceva davanti al suo fulgore. Il bene e il male» (p19)
E ancora oggi la narratrice dice che la nostra protagonista torna sul luogo dell’esecuzione: «Non trovo pace per la rabbia, per l’ingiustizia. Non trovo pace perché vedo che, dopo quattro secoli, se sono diversi i tempi, ad essere le stesse sono le passioni umane, che non scongiurano ancora fosche vicende come la mia. Allora rabbrividisco e il gelo mi resta dentro.» (p 138)
E il male continua, l’attentato alle torri gemelle nel 2001 proprio l’11 settembre… fu un caso? Forse. Ma i femminicidi? Sono ancora tanti… troppi! Circa 150 l’anno solo in Italia. Il gelo lo sentiamo anche noi.
«O sì bianca, sì dolce, sì soave la fanciulla!»: gli ultimi versi della poesia di Ben Jonson. Questa era Beatrice. Il male non veniva da lei, ma dalle rozze mani che l’hanno toccata.
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
Commenta per primo