KAPUTT, di Curzio Malaparte (Adelphi)
Premetto che non sarò capace di spiegare che in parte e piuttosto male le sensazioni che un libro simile trasmette, una scrittura che trasuda bellezza nelle sue orribili e terribili parole, perché questo libro è terribile, negli intenti e nei fatti, e non delude le aspettative in tal senso.
E’ possibile raccontare qualcosa di enorme e moralmente gigantesco come la Guerra senza ferire? Senza far sentire le feroci sofferenze che molti patirono? Non credo sia possibile, e Malaparte deve avere deciso che, visto che non era possibile raccontarlo rendendolo meno amaro, tanto valeva dargli una sorta di orrenda bellezza attraverso le parole.
Tutta la ferocia, le viltà, gli atteggiamenti inumani e umanissimi, sono raccontati nei capitoli attraverso racconti nei racconti con alcuni, specifici, animali come comune denominatore.
Malaparte è un autore di cui non si può non riconoscere l’oggettiva grandezza, e in questo romanzo raggiunge l’apice.
Non lo vorrei consigliare, mi piacerebbe imporlo amichevolmente come testo imprescindibile della letteratura Italiana.
Incipit: Il manoscritto di Kaputt ha una storia: e mi sembra che nessuna prefazione convenga a questo libro meglio della storia segreta del suo manoscritto. Ho cominciato a scrivere Kaputt nell’estate del 1941, all’inizio della guerra tedesca contro la Russia, nel villaggio di Pestcianka, in Ucraina, in casa del contadino Roman Suchèna. Ogni mattina mi sedevo nell’orto, sotto un albero di acacia, e mi mettevo a lavorare, mentre il contadino, seduto per terra presso il porcile, affilava le falci, o affettava le barbabietole e le verze per i suoi maiali. La casa, dal tetto di stoppie, dai muri di terra e di paglia tritata, impastata con sterco di bue, era piccola e pulita: non aveva altra ricchezza fuorché una radio, un grammofono, e una piccola biblioteca con tutte le opere di Puschkin e di Gogol.
Recensione di Elena Raspanti
KAPUTT Curzio Malaparte
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