LA CAMPANA D’ISLANDA, di Halldór Laxness (Iperborea)
Sinossi
È il periodo più buio della storia d’Islanda, soggiogata dal regno danese e martoriata dalle carestie, quando un giorno d’estate di fine Seicento il boia del re, su ordine di Copenaghen, porta via l’antica campana di Þingvellir, che da sempre veglia sulle assemblee dell’Alkingi e sulla vita della nazione, e poi viene trovato morto. Comincia così la picaresca avventura del contadino Jón Hreggviðsson, povero diavolo e irriducibile canaglia, zotico e poeta abituato ad affrontare ogni avversità declamando versi arguti e rievocando le gesta dei suoi avi vichinghi, che si ritrova accusato di omicidio. Pedina di una partita fra intrighi politici e ideali più grandi di lui, Jón intreccia la sua sorte a quella dell’amore impossibile tra la bellissima Snæfríður «Sole d’Islanda» e l’erudito Arnas Arnaeus: lei ambita figlia di un potente eppure inafferrabile ribelle, con l’indole femminista delle eroine delle saghe, pronta a cadere in disgrazia pur di decidere per se stessa; lui votato alla missione di raccogliere tutti i preziosi manoscritti dell’età antica, preservando la poesia con cui il suo popolo riscatterà l’onore perduto.
Commento
Ho aspettato una settimana per questa recensione, e poi ancora un’altra.
So di non poter attendere ancora perché le impressioni a caldo rischiano di sbiadirsi e risultare meno incisive, invece sono fondamentali, perché hanno innestato le riflessioni successive.
Proprio come il rintocco di una grossa campana: tu senti il suono pieno, maestoso, intonato, metallico per un attimo e poi continui per un altro po’ di tempo a sentir risuonare l’eco del rintocco dentro le orecchie e, se la campana è grande, dentro la pancia.
Questa non è una semplice campana ma è “La” campana. E’ il simbolo dell’Islanda, che viene smontata e spaccata per ordine del sovrano danese, affogato nei debiti e bisognoso di metallo per costruire armi per la guerra contro i vicini.
L’Islanda è da sempre terra sottomessa e nell’incipit di questo romanzo, viene rimarcato proprio questo aspetto: gli islandesi muoiono di fame, elemosinano un pezzo di spago per continuare a pescare e avere, quindi, di che cibarsi, ma non interessa a nessuno, nemmeno agli islandesi stessi.
Il rintocco di questa campana perciò è funebre. Ma non trascuriamo l’eco, che è più sottile, più melodioso e si sente in lontananza. C’è infatti un islandese, che fa parte dei “colti”, nelle simpatie del sovrano danese, che gira per le catapecchie in cerca di antichissime pergamene, ora utilizzate per rattoppare scarpe, ma su cui è scritta la Storia. Questo è l’eco di quella Islanda che non si arrende, di quella Islanda che non è il buco dell’Inferno descritto da tutti, ma che è patria di Storia Antica che qualcuno non ha dimenticato.
Ai pochissimi benestanti islandesi, però, questo rintocco non piace: loro non vogliono che la loro terra venga celebrata… Perché? Io me lo sono chiesta pagina dopo pagina e sono arrivata a questa conclusione: perché se si insegna ai bifolchi la giustizia, si va ad assottigliare sempre di più il divario tra le due classi sociali esistenti. In Islanda o si è ricchi o si muore di fame, e guai se qualcuno si mette dalla parte dei bifolchi e va a dire in faccia ai ricchi che in Islanda non c’è giustizia.
Questo è un romanzo paradossalmente attuale: parla di Storia, di oppressione, di disparità sociale, di chimere, di povertà.
Il messaggio che mi arriva assieme all’amaro finale è che ognuno di noi sceglie in continuazione chi vuole essere nella vita. Nei rintocchi fantasma di questa campana che non c’è più, i personaggi continuano a sentire un “sei sicuro di voler essere ciò che sei?” E purtroppo, la risposta di ognuno di loro è sempre la stessa…
Recensione di Rita Annecchino
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