LA CITTÀ INTERIORE, di Mauro Covacich
L’immagine di copertina è una foto del fotografo rumeno Costică Acsinte, ripresa da Jane Long, artista fotografa australiana, intrigante per il gioco dell’identità che si perde nel tempo, nella storia, nella foresta, nella nebbia, nel rifesso. “La città interiore” di Mauro Covacich è forse una selva oscura dove l’identità si perde invece di autoaffermarsi.
Chissà. Finalista Premio Campiello 2017, questo libro viene definito dall’autore il “romanzo di Trieste”, romanzo documentario di persone vere, non di personaggi. L’autore osserva, si documenta, approfondisce e trasforma la materia. La materia passa attraverso la vita vissuta di familiari, conoscenti, scrittori, musicisti, come quella di Antonio Bibalo, compositore istriano che, uscito per comprare le sigarette, sparisce, fa una vita rocambolesca e in Norvegia diventa un noto musicista del tutto sconosciuto in Italia.
L’incipit è caratterizzato da due immagini che si sovrappongono nel tempo: la prima è datata 4 aprile 1945: un bambino trasporta una sedia tra le macerie di una città devastata dalle bombe e appena liberata dall’occupazione nazifascista. Un’immagine di guerra, da docuromanzo che viene subito sostituita da un’altra immagine, simile per contenuti e significati. La data cambia: è il 5 agosto 1972 e il bambino ora è il figlio del bambino del 1945 e se ne sta rifugiato tra le gambe di suo padre. I terroristi del Settembre Nero hanno appena fatto saltare due cisterne di petrolio e il bambino (l’autore a sette anni) chiede, in dialetto triestino, se quella è la guerra.
Nonno, padre e figlio. Covacich ricerca la sua identità nella città di Trieste, scavando nei ricordi di famiglia, ma anche del caso, attraverso racconti di amici, conoscenti, letture, incontri, e i tanti personaggi che hanno abitato Trieste fra scrittori, musicisti, intellettuali. Si sposta nel tempo per capire il presente oscillando tra diversi piani emotivi e sensoriali; la ricerca spazia dagli oggetti, ai ricordi, ai luoghi. Non c’è un centro nel suo cercare, la narrazione procede per osmosi, e ogni volta l’identità ricercata si allarga, si restringe, si arricchisce tuffandosi nell’esperienza dell’altro, della città di Trieste. Parenti, persone, vie e piazze cittadine, ma anche campo di concentramento aperto nella vecchia Risiera, e foibe.
Chi abita a Trieste? Chi sono i triestini? Cosa rimane della loro storia? È il 1954 quando Trieste diventa italiana e in tanti non sanno più chi sono, smarriti, costretti a scegliere tra esilio e resistenza. In quegli anni le guerre disfano in continuazione le vite della gente, obbligando percorsi nuovi, di confronto, di scontro, di compromessi.
Mauro Covacich si avventura in tante storie, di persone semplici o con nomi famosi, non importa. Tutte queste vite sono quelle che animano la sua città. Un percorso interiore oltreché esteriore. «Nella storia personale vissuta […], l’identità fallica dei nazionalismi ha lasciato il posto a un’identità diffusa, rizomatica la cui non-appartenenza è forse il regalo più prezioso della sua città di elezione.» (p.22) La città eletta è Trieste, la storia personale è quella di Jan Morris, autore/autrice del libro “Trieste and the Meaning of Nowhere”, che si potrebbe tradurre “Trieste e il significato di un non-luogo” dove ‘nowhere’ è la negazione dell’identità geografica. E con essa si nascondono o si dipanano tutte le altre identità: quella di genere nel caso specifico: Jan Morris diventerà donna.
Ma anche di altre identità che passano attraverso il senso di appartenenza a una lingua, a una nazione, a una ideologia, a una terra. Come sottolinea Covacich: «Non è facile dire quanto possa aver influito Trieste nelle sue scelte, ma certo la scrittrice coglie proprio nell’indeterminatezza la caratteristica principale della città, ovvero nell’oscillazione di un’identità volta a volta iperborea e mediterranea, ma anche asburgica, italiana, slava, greca e profondamente ebraica, o forse proprio nella fluttuante simultaneità di ognuna di esse.» (p.19) e ancora «dei padre gallese e madre inglese non può sfuggirle la natura del confronti sloveni/italiani.» (p.21) e questo è solo un esempio. Ma ci piacciono gli esempi di Mauro che sa distinguere e apprezzare al di là di ogni confine il contributo linguistico, culturale, umano.
Allora un luogo diventa quello che è, grazie a tutti i paradossi che esprime. Una identità ‘rizomica’ appunto, per usare un termine del poeta filosofo antillese Édouard Glissant anche lui in cerca di definire una propria identità che la storia ha deturpato nel nascere. Identità che, a malincuore, l’autore triestino è costretto a riconoscere nella lingua italiana, non nel dialetto che invece è la sua lingua madre. La non appartenenza si rivela anche nella casa linguistica abitata. Dice Mauro Covacich: “la mia casa è l’italiano” e fino all’ultimo cerca il significato delle parole e la loro traduzione. Come la parola ‘jama’, che De Micheli tradusse con ‘fossa’ nel 1978, e che oggi può essere tradotta con il termine ‘foiba’. «La ragione della fama di una così singolare caratteristica geologica è l’uso che ne viene fatto dai soldati di Tito a Basovizza e dintorni, uso che si ritrova identico, sul fronte opposto.»
Che la guerra è fatta dagli uomini, che prima di essere nemici fra loro, si muovono nelle vie e nel tempo con gli stessi obiettivi e desideri. Peccato che poi lingue, culture, religioni e l’ignoranza dividano invece di riunire. Come la storia di Ivan Goran Kovačić, la cui lapide si trova appunto ‘sul fronte opposto’. Il suo cognome è uguale a quello di Mauro se non fosse per una cappa al posto della ci. A questo poeta morto in guerra il poeta francese Paul Éluard dedicò una poesia che così recita: «nella vostra voce / nelle vostre pupille / sono vincitore / il mio sogno è stato liberato.» (p. 120). La libertà o i versi fotocopiati nell’ostilità generale. Ma che importa «la febbre è di nuovo alta.» (p. 121) in Croazia, dove la ricerca dell’omonimo ha portato Mauro, il viaggio continua, la guarigione forse è più avanti. Un caleidoscopico viaggio che continua ancora… ma lasciamo al lettore la gioia della scoperta dei tanti aneddoti, incontri e personaggi che popolano la città interiore di Mauro Covacich.
I consigli del Caffè Letterario Le Murate Firenze, di Sylvia Zanotto
Commenta per primo