CITTÀ SOMMERSA, di Marta Barone
Ma di che città sommersa si parla? Torino e le sue fabbriche? La città delle lotte armate e dei sui adepti ingenui pronti a morire perché non sanno cos’altro dire, fare o pensare? La città di Milano che chissà se esiste ancora come diceva il poeta? La città del padre? Sì, ma quella di nascita pugliese? Quella della politica? Quella dello studio? Quella dell’amore?
Tutti interrogativi, questi, di difficile interpretazione, proprio come la vita di cui quasi nulla sappiamo e che tentiamo di vivere al meglio cercando di capirci qualcosa. E allora ci aggrappiamo alla memoria. Ma ci accorgiamo che la nostra immaginazione rimescola le carte. La nostra vita si fonda quindi sul ricordo modificato dalla nostra mente. Ma anche il presente non sfugge a questa legge. Anche il presente è di dominio incerto e di difficile resa leale.
Marta Barone in questo suo libro d’esordio e candidato al Premio Strega, butta lì accanto alla storia incredibile che tenta di raccontare, tematiche che ruotano intorno al senso della vita, contestualizzati in un pezzo di storia recente italiana. La mia storia. Che mi accorgo di non conoscere. Solo per frammenti e spesso quelli sbagliati; come sottolinea Mara Barone: «non è possibile, ancor meno possibile rispetto a noi stessi, avere un’idea (figurarsi restituirla della totalità della vita di un’altra persona. Sappiamo a malapena qualcosa di noi e spesso quel qualcosa è sbagliato.» (p.136) Proprio così, non possiamo fidarci della nostra memoria, sul suo modo di restituire la realtà: «sul modo in cui ricordano gli umani, sulla zona ombrosa in cui fatto e immaginazione si configgono insieme fino al punto di non saperli più distinguere guardando indietro» (p.69)
Forse è per questa nostra incapacità di cogliere l’essere umano nella sua interezza che in esergo l’autrice cita Iosif Brodskij: “Di tutto l’uomo non resta che una parte del discorso. In genere, una parte. Parte del discorso”. Ecco che mettendo bene in chiaro questo concetto, l’autrice si accinge ad interpellare uno “smaliziato lettore” che avrà già individuato “il fucile appeso alla parete nel primo atto del dramma”. Lei, “invece, personaggio neghittoso e involontario” continua a vagare “per Milano del tutto ignara del fatto che da qualche parte ci potesse essere un fucile.” (p.34) Perché di dramma si parla. A tutti i livelli, personale privato, sociale di dominio pubblico. Il fucile è il fucile della vita, delle bande armate e della polizia. È un fucile che prima o poi ci scoppia in faccia a tutti. Anche a chi si muove ozioso per le vie di una città poco accogliente perché in primis è l’individuo che non si fa (ac)cogliere. Ha i suoi motivi, ovviamente che si disperdono nelle storie individuali e collettive. In questa storia, o in questi frammenti di storia emerge un personaggio meraviglioso, un eroe del bene, incompreso, vittima degli anni di piombo. Sconosciuto al mondo e in primis alla figlia, l’autrice Marta Barone. Nel dramma della vita, si sdrammatizza con la scrittura.
Così l’autrice riesce a fare emergere un uomo ‘vero’, sganciato dal ruolo paterno, L. B. che piano a piano si affaccia nella scena fittizia dell’impalcatura letteraria e conquista chi legge come presumibilmente ha fatto durante la sua vita con chiunque. Un eroe non apprezzato, che sin da piccolo era “portato al bene”, come dice Marta Barone in un’intervista, parlando del suo romanzo. “La città sommersa” è proprio lui che piano si delinea nella sua folle corsa, per scappare al sangue, o per salvare dal sangue, sempre in prima linea, in difesa dei più bisognosi.
“La città sommersa” è anche un tentativo di raggiungere il padre, e di conseguenza se stessa. Un viaggio doloroso in quegli anni tristi e brutali – gli anni di piombo – che hanno infranto ideali e sogni di tanti italiani. La storia, come una clessidra inesauribile, procede, non tutti siamo protagonisti. Purtroppo spesso accade che chi fa la storia, la fa male. Senza amore. «La storia esiste perché non c’è più l’uomo.» (p. 285) «Il tempo non si ritrae, il tempo si aggiunge al tempo» (p. 285)
E così la poesia iscritta nei titoli della trilogia si compie: la conchiglia dischiude una nuova vita, attingendo alla città segreta, sommersa, la Kitež scampata agli invasori, sprofondata in un lago nelle foreste a Nord del Volga. La fine si perde nella nostalgia del tempo passato, di quello che forse sarebbe potuto diventare, del se ipotetico e del sé reale, quella lacuna che sta fra le persone e le cose.
Una narrazione che si avvale di tutto quello che serve, che sfugge alle definizioni e che porta il lettore a commuoversi e a piangere di fronte al ragazzo che corre per le vittime innocenti di Villa Azzurra, il manicomio dei bambini, per la fine di un sogno di rivoluzione, per le parole che purtroppo non servono se la vita non lascia spazio alle poesie. Un libro che lascia un segno. O meglio frammenti di segni.
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
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