LA COMPAGNIA DELLE ANIME FINTE, di Wanda Marasco (Neri Pozza)
“La compagnia delle anime finte” di Wanda Marasco è il racconto della vita di Vincenzina, narrato dalla figlia Rosa. Ella evoca fatti e personaggi della famiglia, in un surreale dialogo con la morta. I “…ti ricordi…” fanno affiorare fatti, aneddoti, personaggi all’interno di un travagliato rapporto familiare, fra amori e disamori; Vincenzina e Rafele sanno vivere la loro passione nonostante la differenza di condizione economica, sociale e culturale; un rapporto in cui i due rubavano baci “…nell’angolo tra due muri sbreccati e parevano fantasmi tra le macerie del dopoguerra…”
La narrazione accompagna i due in un ambiente ‘animistico’ fra il fantastico e l’irrazionale dove si ha la sensazione che i “vichi”, i “basoli”, i “muri”. I “vasci”, le “ombre” siano anch’essi protagonisti in una città viva e palpitante dove la ‘gente’, le “orche”, la “guagliunera” sono tutti interpreti della loro esistenza su di un enorme palcoscenico, dove tutti partecipano alla vita di tutti.
Il racconto di Rosa va al di fuori dei ‘tempi suoi’; ella narra come se avesse vissuto ogni singolo momento di quelle storie, usa un lessico intriso di frasi nel dialetto dai contenuti familiari a chi, appunto, ‘ha vissuto’ quei posti fra il centro storico e il centro antico: un ‘teatro’ vecchio di ventisette secoli, erede di una società arcaica che si perpetua nei suoi riti e nei suoi culti.
Rosa racconta la madre, ma anche il padre, i nonni e altri personaggi, fra cui Mariomaria, “…la creatura che aveva dentro di sé una preghiera rovesciata…”, o Emilia che “…si era fermata davanti al vascio… il filo di sangue scorreva lungo la gamba…”.
Un mondo di aberrante povertà dove ci si ‘arrangia’ ed è sempre il più debole a soccombere, abbandonato da chi dovrebbe prendersene cura, ma presente nella solidarietà popolare.
Solidarietà che, tuttavia, arriva solo fino al limite del proprio interesse, dettato solo dalla necessità di sopravvivenza.
Fra le righe della narrazione, si intravede, per chi la conosce, una città in cui è viva la celebrazione della memoria, ma anche della ‘vita dei morti’ fra ‘Le Fontanelle’ e ‘Purgatorio ad Arco’, luoghi, chiese dove il culto dei ‘trapassati’, fra religiosità e superstizione, resta profondo nell’immaginario collettivo, e dove le anime “pezzentelle” (petentes) vengono celebrate, accudite, venerate, ma anche bestemmiate se non ricambiano i ‘favori’.
Una Napoli, sotto certi aspetti, nello stile di Viviani e di Eduardo, in cui la povera gente vive immersa nel disordine quotidiano, nell’eterna incertezza del domani. Un’umanità oppressa, sempre in bilico fra il debito e l’imprevisto, la violenza e il sopruso. Il lessico usato è talvolta un po’ criptico nel significato di alcune frasi che, tuttavia nulla toglie al fascino della narrazione.
Si capirà poi qual è la ‘relazione’ che accomuna madre e figlia, in un colpo di scena che non si può immaginare perché giustappone la surrealtà della narrazione alla magia di un contesto irreale. Ancora una volta un ambiente degradato fa da sfondo alle vicende e, ancora una volta, addentrandomi in certe realtà sempre meno diffuse, nonostante i moderni ‘guasti’ che, tuttora, sopravvivono con modi, tempi e personaggi diversi, mi sovviene che, come cantava Pino Daniele, “…Napule è na carta sporca e nisciuno se ne importa…”.
Recensione di Sergio Mascagna
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