LA CORRIERA STRAVAGANTE, di John Steinbeck
Immaginate uno di quei posti di frontiera tra California e Messico, un ristorante stazione di servizio, stile quadro di Hopper, e una corriera parcheggiata in attesa di ripartire con il suo carico di avventure, aspettative, inquietudini di un’umanità variegata, squarcio microcosmico di un’America in bilico tra le ferite del dopoguerra e i lustrini di Hollywood. A metà strada su una collina desolata in mezzo alla tempesta il tema del viaggio si spezza per lasciare spazio ai profili psicologici dei personaggi, archetipi scintillanti di facile memorizzazione, ognuno portatore sano di speranze disattese. Come ne “I Pascoli del cielo” fuori d’ogni ipocrisia Steinbeck lacera il tessuto sociale a stelle e strisce, con quella leggerezza picaresca che si respira passando per “Vicolo Cannery” o “Pian della Tortilla”, sebbene si percepisca il retrogusto amaro dell’incompiutezza, che nemmeno un finale aperto verso le luci lontane riesce a mitigare.
Come un buon vino l’invecchiamento giova al romanzo, non guasta in aceto, ma decontestualizza e trasporta il lettore in quel passato che tende a farsi remoto nel tratteggiare quell’epos mancante alla perenne ricerca di radici troppo fragili per esser profonde. La traduzione con quella terminologia frizzante che indulge alla favella toscana potrebbe far storcere il naso ai puristi, preferenti lo slang, l’indice puntato dello zio Sam e invece no, a noi di madrelingua va bene così, i panni vanno sciacquati nell’Arno argentino, in odor di zingarata.
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