LA FIGLIA UNICA, di Guadalupe Nettel (La nuova frontiera)
“Quanto più amiamo una persona, tanto più fragili, più insicuri ci sentiamo a causa sua”.
Esistono ancora oggi tanti stereotipi che riguardano una delle condizioni più desiderate, temute, sofferte o respinte dalla donna, e cioè la maternità . Quante volte il sentire comune è pervaso da domande circa l’opportunità o meno di fare figli al giorno d’oggi, da ricette ideali sull’essere o non essere una buona madre, da dubbi riguardo alla possibilità di essere donna del tutto se non viene espletata la funzione procreativa? E quanto il nostro legame con chi ci ha preceduti condiziona il rapporto con chi ci seguirà o con chi decideremo di affiancare per un innato istinto materno, anche se madri non saremo mai? E la maternità è solo una questione di istinto o anche di forte perseveranza?
Sono solo alcuni degli interrogativi che mi ha suscitato la lettura di questo libro, scritto con una penna lieve ma intensa, fluida ma irrorata da riflessioni, piccole metafore, fugaci pensieri dei protagonisti che ne rendono preziosa l’essenza. È come se l’autrice ci prendesse per mano, accompagnandoci in un viaggio fatto di vite e di storie più o meno ordinarie e smantellasse ciascuno di questi stereotipi, e non per arrivare a verità assolute o a finali sorprendenti, né utilizzando stratagemmi speciali che non siano il semplice fluire della vita, quella sua ordinaria straordinarietà che ogni tanto ci sorprende, scompigliando le carte che da giovani o in tempi diversi, forse più inconsapevoli, avevamo provato ad apparecchiare sul tavolo del nostro destino. E forse è proprio lì che scatta il libero arbitrio, come cita quella famosa frase variamente attribuita: “La vita è per il 10% ciò che ti accade e per il 90% come reagisci”. E’ quello che succede alle due protagoniste di questa storia, Laura e Alina, unite da intensa amicizia durante gli anni trascorsi da giovani a Parigi e ritrovatesi nella loro terra messicana d’origine ma con prospettive di vita diverse, perché quel forte, analogo rifiuto di volontà di non avere figli per non abdicare alla loro libertà e accettare piuttosto lo stigma sociale e familiare, cambierà per Alina, che incontrerà l’amore, che sperimenterà una gravidanza sofferta e una maternità non canonica, fragile, esposta all’incertezza, al dubbio della sua stessa sussistenza, eppure sentita in tutta la forza testarda del vivere e dell’amare anche ciò che è precario:
“Poi ho pensato che l’amore è spesso illogico, incomprensibile…Chi non si è tuffato in un amore abissale pur sapendo che non avrebbe avuto futuro, aggrappato a una speranza fragile come un filo d’erba?…l”amore e il senso comune non sono sempre compatibili. In genere si tende a scegliere l’intensità, per poco che duri, a prescindere da tutto ciò che mette a rischio”.
Ma anche Laura, che si fa spettatrice dapprima inerte e perplessa, poi sempre più partecipe del destino dell’amica, scompiglierà le proprie carte offrendo aiuto a una vicina di casa e al suo bambino problematico e sarà un fenomeno naturale, il parassitismo di cova osservato tra gli uccelli che dimorano nel proprio balcone, ad aprirle tanti spiragli su quel sentimento di maternità che, anche se non espletato in maniera biologica, può essere declinato da ciascuna donna in molteplici modi proprio in virtù della sua permeabilità e flessibilità: “abbiamo i figli che abbiamo, non quelli che immaginavamo o che ci sarebbe piaciuto avere, ed è con loro che dobbiamo fare i conti…a volte i figli arrivano senza averli pianificati, come se qualcuno depositasse un uovo nel nostro nido”.
E in mezzo a queste donne, e ad altre che le affiancano, dentro o fuori dalla famiglia canonica, c’è un balsamo curativo che va al di là della resilienza, perchè se questa agisce a livello individuale, ne esiste un altro che è l’empatia, che si apre all’altro e se ne nutre per potere andare avanti…Cosi c’è Marlene, bambinaia che si lega smisuratamente a una bambina fragile con quell’amore intenso e lieve di chi sa che non potrà restare per sempre, o Doris, la vicina di casa che per scoprirsi madre dovrà prima ritrovarsi donna, o la madre di Laura, donna apparentemente algida, in realtà in attesa di uno spiraglio di luce da parte della figlia perchè, alla fine dei conti, non tutte siamo madri ma saremo sempre figlie e, ricordando i primi versi di una poesia di Hermann Hesse dedicata alla madre:
“Tanto avevo da dirti
troppo a lungo fui in terra straniera
eppure, giorno dopo giorno,
sei stata colei che meglio mi ha capita”.
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