LA FOIBA GRANDE, di Carlo Sgorlon
Il romanzo prende vita con un ricordo di morte: la peste nera che nella penisola istriana nel Seicento causò la dipartita di moltissime persone, tanto che ormai la popolazione decimata la si poteva definire come un gruppetto sparuto di individui.
Da qui l’esigenza, da parte del podestà, di ripopolare quei luoghi. Attraverso ordini scritti, fatti recapitare in Turchia fino a Venezia, iniziarono ad arrivare popoli diversi che avevano caratteristiche orientaleggianti, europee, slave, russe ed erano contadini, boscaioli e le donne robuste erano esperte di erbe e radici.
Cominciarono a lavorare la terra fatta di pascoli, boschi di quercia, ulivi, acacie.
Si insediarono nelle vecchie case ormai abbandonate. Molti di loro, in particolare rumeni e dalmati, furono invitati a stabilirsi ad Umizza, villaggio immaginario, presso il vallone di Lemme, non lontano da una grande foiba.
Con questa commistione di nazionalità e popoli diversi la vita ricominciò il suo corso, attraversata da canti balcanici e nenie istriane.
I secoli passarono fino a quando un nuovo odore di morte si impossessò di Umizza: il paratifo, che nei primi anni del Novecento portò via molte persone, tra cui anche la moglie del misterioso ed enigmatico Benedetto Polo che, dopo la fine del primo conflitto mondiale, sorprese la sua famiglia imbarcandosi alla volta degli Stati Uniti.
Dopo anni, durante il secondo conflitto mondiale tornò al paese con la sua arte di scultore.
Lo scrittore traccia, nella figura di Benedetto, il simbolo della riflessività e dell’osservare.
Lui è l’uomo-continente che in sè ha tutte le stratificazioni identitarie secolari della penisola istriana così diversificata e multietnica.
Il suo lavoro di scultore lo porta a impastare le sue opere con l’argilla di cui è composta la sua terra.
Lo stesso forno per cuocere le statue, che avevano i visi delle donne forti e robuste di confine, viene rinvenuto sotto la terra natia.
Così come forte e robusta è Vera, personaggio importantissimo nella storia; un simbolo anche lei della vera e cristallina operosità della gente del luogo, che non si abbatte nell’avvicendarsi di domini austriaci, italiani fascisti e poi partigiani comunisti. Se gli italiani ne fecero un loro possedimento lontano non tralasciarono di usare la forza e un certo autoritarismo misto a confusione nell’imporre leggi e burocrazia.
Rimase un ultimo dominio: quello dei partigiani comunisti che vollero far propria una terra rossa, bruna, gialla, nera con i suoi boschi fitti e selvaggi e le sue foibe, dove sembra scorrere un fiume misterioso nelle profondità della terra.
Quelle stesse caverne che Benedetto ha ispezionato e dalle sfumature azzurre, rosa, celeste. Un universo nascosto che sottolinea ancora una volta quanto la terra faccia da calamita a quell’uomo strano.
Aveva scoperto anche un suo sosia che al contrario di lui era un uomo-mare.
Ma forse non sono lo stesso uomo dalle caratteristiche multiformi che ha dentro il mare e la terra al di là dell’Isonzo?
Sgorlon con poetica raffinatezza fa sentire anche la sua voce da friulano nel racconto, insieme ad altri personaggi una vicenda umana di straordinaria dolenza.
Dopo l’armistizio quei luoghi si erano ancor più incattiviti. La gente italiana spariva nel nulla e il nulla sembrava non avere fine. Erano diventati stranieri in patria.
Allora quella foiba di un tempo così solitaria e solo buona per buttare scarti di carne di macello abusivi, diventerà qualcosa di più utile per i seguaci di Tito.
Una grande bocca senza denti che ingoia il libero pensiero italiano che si sentiva parte di un poliedrico rumore di voci con accenti variegati che piacevano all’anziana Partenija. Con gli efferati omicidi nelle foibe si è soffocata la voce di chi è diventato esule che ha versato lacrime amare in quell’Adriatico dolorosissimo di ricordi, avvolti nelle nebbie del destino.
Interessantissima la postazione di Gianni Oliva.
Buone letture a tutti!
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