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LA LAGUNA DEL DISINCANTO, di Massimiliano Scudeletti (Arkadia – novembre 2024)
La magia della fiaba. Il male che si maschera e tinge di nero le narrazioni dei nostri piccoli. Come proteggerli?
Alle amicizie perse. Questa la dedica. La perdita: un male in più da combattere. Massimiliano Scudeletti, accanto al disincanto del titolo ci mette gli amici che non ci sono più. Chi legge ripercorre insieme a chi scrive questo pezzetto di vita passata, affiora l’emozione di questo tipo di ricordi. Prima ancora di immergerci nella lettura eccoci già alle prese con materiale compromettente: noi, la nostra vita.
Giriamo la pagina, e ci sorprende l’esergo: «I veleni non erano quelli di un bambino, ma di un giovane uomo, veleni più adulti; e le cose da esorcizzare più inquietanti.» (Luigi Meneghello, nota a “I piccoli maestri”). Una citazione di un libro pubblicato nel 1964. Una testimonianza anti-celebrativa di storie partigiane in contrasto con la narrazione neorealistica caratteristica del dopoguerra in Italia. Mi colpisce la scelta di ricordare un partigiano scrittore, traduttore, filosofo, professore universitario a Reding, e poi a Londra, amico di Neri Pozza, per lo più sconosciuto in Italia. I veleni sono davvero potenti. Ovunque. Nella storia, nel presente. Nella letteratura. Come combatterli? Cominciamo con la forma. Una narrazione asciutta senza retorica.
Chi ha letto “La laguna dei sogni sbagliati”, ricorda che il protagonista bambino, aveva già avuto a che fare con le sostanze tossiche di Marghera: è da presagire qualcosa di terribile.
Così eccoci catapultati nel prologo, a Calcutta, proprio lì, dove il male è attivo: «L’odore del sangue […] era rame fresco sparso per terra, profumo di fiori recisi da poco, incenso e altro ancora. Pungente. Disgustoso.» (p 13)
Il flash nel quartiere a luci rossi indiano è subito seguito da un altro flash. Alessandro Onofri, ormai cresciuto, è un adulto disincantato, un sopravvissuto che non vuole più svolgere la sua professione di reporter di guerra. Lo troviamo a passeggio con una giornalista. Ha appena allestito una mostra fotografica sulla malattia mentale. Non riuscirà a presiedere all’inaugurazione. Un’urgenza lo richiama a Firenze.
Ma prima, vi sono due soste che il protagonista propone al lettore: davanti alla targa di Ezra Pound, che il Comune di Venezia ha fatto porre nel centenario della sua nascita sull’abitazione di Calle Querini, Dorsoduro 252. Un espediente letterario per citare alcuni versi del miglior fabbro: «E la bellezza di questa tua Venezia / m’hai tu mostrata / che la sua grazia è divenuta in me / una cosa di lacrime.» (p 19) La seconda sosta, è un salto nel passato, in un palazzo dove ha vissuto con la zia. La zia lo chiama. Ma lo chiama veramente o è un sogno? «e lei alzò il libro che aveva tenuto nascosto». (p 21) I libri salvano. Tutti. Senza distinzione. Quelli di Ezra Pound e quelli della zia del protagonista.
Scrittura che si confonde con quella del narratore. Il libro ha un prologo, un epilogo ed è diviso in tre parti: per ognuna di esse, le parole della zia Annamaria sono le parole d’ingresso. Un incanto per le sue caratteristiche sovrannaturali, come aperture verso mondi dimenticati, o da indagare come quelli sotto di noi – nelle acque della laguna: «I luoghi magici hanno di regola una sola entrata. […] a Venezia esistono passaggi magici che sono unici, doppi e diversi allo stesso tempo. Le porte d’acqua appunto. […] da dentro sono archi di luce che introducono all’acqua e in questo fluire c’è un che di rinnovamento, di sentirsi diversi, che è esplicitamente magico.» (p 17)
Le donne! Ce ne sono due che riconosciamo, perché appartengono alla nostra realtà: la giornalista precaria che scompare subito dopo le prime pagine e Sarah, che invece rimane nelle pagine e nei nostri cuori; di cui viviamo l’inquietudine e le paure di madre: suo figlio è finito nelle maglie del Dark Web. Una sorella per Alessandro Onofri, «la sorella che non aveva mai avuto. Quindi quando lei chiamava, lui accorreva.» (p 24)
Poi c’è la zia, nei ricordi/sogni di Alessandro. Scrive la zia, o meglio scriveva; nei suoi diari traspare inquietudine, mentre nelle scritture antiche e nel non luogo della magia forse danza interrogando le tenebre: «Sono preoccupata per il mio ragazzo. […] per indole questo ragazzino ama le ombre. […] questa terra sospesa tra bellezza e i fuochi fatui delle ciminiere di Porto Marghera […] è maledettamente perfetta per una stagione di nefandezze.» (p 123).
La zia è in assoluto la mia preferita. Ma anche la preferita dell’autore. La richiama e da qualche parte la riconduce all’origine di tutto, perché tutto inizia lì, nella scrittura e nella scelta dei titoli: le cupe vampe sono sbarrate per lasciare il posto alla laguna dei sogni sbagliati (p 227). Ne abbiamo già parlato: è il titolo del volume che racconta di Alessandro Onofri ragazzo. Un bambino ferito, inquieto, senza più i genitori, che insegue quello che crede sia la luce, invece è la sua parte tenebrosa.
Luce e tenebre. Gli opposti che attraggono Alessandro Onofri cresciuto. Ne “La laguna del disincanto” la femme fatale si chiama Fereshteh / Laila Neri: «Era facile stare bene con lei, forse anche innamorarsene. Era bella, sì, ma non era solo quello. Attraeva, ma più per il suo aspetto per una certa energia. […] Una forza che non si percepiva nemmeno come del tutto positiva, anzi. […] C’era qualcosa di lei che gli sfuggiva: la cosa lo inquietava, la cosa lo attraeva.» (p 137) Che dire di lei? La scopriamo nelle emozioni del protagonista e come lui subiamo il suo grande fascino. Lei così bella e così ingannevole.
La bellezza di cui si traveste il male, con la M maiuscola, il Dark Web.
«Internet è come l’Africa di due secoli fa. Hai presente, no? L’avidità spinge algidi anglosassoni a colonizzarla sempre più nel profondo, sfruttando dotati indiani, servizievoli asiatici e slavi senza scrupoli, tutti comprati a prezzo di saldo. […] Inoltre è abitata da popolazioni egoiste e in conflitto fra loro, pronte a offrire amici, figli e figlie e madri per una manciata di denaro.» (p 203)
Come un Joseph Conrad del terzo millennio, il narratore si avventura nel Dark Web e fa rabbrividire i lettori. Le nuove tenebre si colorano di tutto ciò che fa dell’uomo il peggior nemico di sé stesso: la cupidigia, il dio danaro, l’incapacità di riconoscere nell’altro schiacciato il proprio io schiacciante.
Un epilogo con una scena da grande film d’azione. Le parole di Confucio come ammonimento: «prima di intraprendere il viaggio della vendetta, scava due tombe.» (p 269) ma per ora le tombe non saranno per i nostri amici, se a Calcutta l’ispettore Singh non arriva in tempo, Alessandro invece riesce a salvare il figlio di Sarah. Ma lui si salverà? Il male lo aveva «trascinato né più né meno che un ramo secco colpito dal fulmine» (p 269) e le ultime parole «cupe vampe» (p 271) sono le stesse del titolo sbarrato del manoscritto di Annamaria Onofri, e sempre lì l’ambientazione della fiaba: nella laguna. Dei sogni sbagliati, prima. Del disincanto, oggi. E domani?
Una narrazione a metà fra la fiaba, il noir, l’horror, ma anche il romanzo di formazione, il racconto del viaggio nei luoghi dell’oscurità. Alessandro Onofri è un Charles Marlow contemporaneo, a bordo della sua improbabile imbarcazione, in balia di tutte le più pericolose correnti, ancora in cerca di sé stesso. E noi lettori, nel chiudere il libro rimaniamo sospesi fra le nostre infinite domande che si sommano alle tante questioni che turbano l’ormai adulto Alessandro Onofri, che cerca di rimanere a galla nel «mare di tenebra». Che avendo combattuto contro acque di passaggio, si accorge di aver confuso «il fiume» con «la meta» (p 269). Perché siamo tutti fragili. Chi pensa di non esserlo – e si comporta di conseguenza – in realtà è più fragile di chi dichiara di esserlo. E questa fragilità mascherata è il male più grande da combattere. Con i sogni. Con la letteratura. Con la fiaba. – suggerisce Massimiliano Scudeletti. E questo sussurro diventa il sibilo del vento, che si perde nel tempo.
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
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