LA LUNA E I FALÒ Cesare Pavese

LA LUNA E I FALO’, di Cesare Pavese

Recensione 1

Anguilla torna dall’America a rivedere le colline delle Langhe dove ha trascorso la sua infanzia come figlio adottivo del Padrino e amico di Nuto, inseparabile maestro di vita.

Qui prende a frequentare Cinto, un ragazzino storpio a cui offre conforto quando il padre fa una strage in casa e si suicida, appiccando il fuoco alla cascina: l’evento, però, rievoca un’altra tragedia avvenuta anni prima, sulla quale Anguilla si è sempre interrogato e del quale apprende ora l’epilogo dalle parole di Nuto.

 

Molteplici i temi trattati dallo scrittore piemontese in questo grande romanzo: la delicata condizione di un paese appena uscito dal dramma della guerra, il contrasto, vissuto in modo drammatico della modernità e delle tradizioni, l’infanzia perduta.

 

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Tutto questo conferisce alla narrazione un tono malinconico che diventa a volte struggimento, senza scadere nel patetico o nel sentimentale, toccando invece vette di autentico lirismo.

La Luna e i Falò prende le mosse attraverso ricordi, che si presentano alla mente del protagonista: il lettore vede crearsi davanti a lui un mondo arcaico, quasi mitico, in cui i ritmi sono ancora scanditi dalle esigenze della natura , simboleggiata dalla luna, e dai suoi riti, i falò di san Giovanni; tuttavia quei fuochi nella notte sono anche quelli accesi dalla follia degli uomini, fuochi distruttori, retaggio di una guerra di cui non si parla più volentieri, ma della quale la terra continua a portare su di se’ le cicatrici, e ancora sono simbolo di una miseria e di una disperazione senza fine.

La Luna e i Falò è anche un romanzo di formazione, raccontando gli eventi che fanno maturare Anguilla, che vede il dramma delle figlie di Matteo – Irene, Silvia e soprattutto Santina – la vicenda della quale è nodo fondamentale della narrazione, e pur amando le sue colline e i suoi vigneti, comprende che il suo destino di uomo è lontano da quei luoghi magici.
Semplicemente un capolavoro, adatto a ogni lettore.

Recensione di Valentina Leoni

 

Recensione 2

Chi ha avuto la possibilità e/o la voglia di leggere questo piccolo gioiello in quell’età giovanile facilmente dimentica del passato prossimo e più proiettata, giustamente, verso il futuro, o ha apprezzato la lettura per il notevole afflato poetico della narrazione oppure l’ ha trovata noiosa per la cadenza, il ritmo ossessivo del gesto e della voce, scarno ed essenziale, tendente al discorso parlato con difficili  termini dialettali. Noioso, insomma.

A tal proposito ho un vago ricordo delle lamentele dei miei compagni di liceo. E anch’io, allora, in tutta verità, l’ho considerata poco, tanto quanto per saperne parlare.

Il mio consiglio è di leggere “La Luna e i falò” ora, giovani di allora. Ora, con la maturità degli anni e con il bagaglio dei ricordi.

“Ripness is all”, la maturità è tutto, scrive Pavese in esergo a “La luna e i falò”, citando il “Re Lear” di Shakespeare”

E già la maturità ha un sapore diverso. Una consapevolezza diversa, un ritmo diverso, una voce diversa, anche un tono diverso.
Basta sfogliare un album fotografico, o ritrovare un oggetto, percepire un odore, sentire un suono per evocare un mondo che non c’è più. E averne nostalgia e rimpianto (quanto la sapeva lunga già Proust, ahimè!)

 

 

Eppure l’oggetto, l’odore , il suono sono sempre gli stessi di allora.
I volti delle foto sono solo più giovani, forse qualcuno è andato prematuramente via, ma sono esistiti ed esistono ancora.
La luna, lì alta nel cielo, quella che ci ha fatto sognare al suo chiarore, è sempre la stessa.

I falò, cornici delle feste, sono sempre gli stessi. Nondimeno, ora la luna come i falò non sono premonitori di buona ventura.
La luna immobile, la stessa  del “canto notturno” leopardiano,  ha scandito il tempo nel susseguirsi delle stagioni, cicliche e monotone. È stata testimone muta di gioie e dolori, guerra e pace, pace e guerra, sorrisi e pianti.
I falò hanno incenerito le nostre certezze e parte dei nostri sogni.

Perché anche se i sogni si sono realizzati hanno un sapore di bruciato di un tempo diventato cenere sotto braci sempre più deboli. E ogni  cosa, ogni volto, ogni gesto  non sono altro che la trasfigurazione dolciastra di quel che resta nel presente, realtà spesso molto amara.
Non ci siamo accorti, in questo tempo di maturazione, velocissimo, che la signora morte si è divertita (e si diverte ancora)  ad aizzare la mano dell’uomo verso il suo simile in nome di tante precarie e soggettive libertà.
E le malattie hanno logorato solidi corpi, sfigurato splendidi volti.
La miseria e l’ignoranza si sono ripresentate indossando altre vesti.

 

 

” Non sapevo  che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire…
Perché,  sapevo di non essere nessuno”.

Lo sa bene Anguilla, il bastardo senza terra, lo sa quando ritorna dall’America, dopo vent’anni, riscattato dalla miseria, con l’anima scorticata dalla malinconia.

“Cos’avrei dato per vedere ancora il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba…”

Anguilla risuscita e sublima i ricordi, proprio come facciamo tutti noi, gente matura e stracca.

” Nuto aveva ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono essere ricchi, innamorati, far fortuna”

Come ci illudiamo di essere fieramente diversi, mentre, in realtà,  siamo tutti tristemente e miseramente uguali.

“Cosa credi? La luna c’è per tutti, cosi come le pioggie, così  come le malattie ”

Come ci vantiamo di girare il mondo  mentre, in realtà, siamo inetti provinciali in cerca di solidi radici. Siamo bastardi senza gloria, non c’è niente da fare.

Anguilla ha girato il mondo e ora percorre il suo passato con il suo immutato Virgilio nelle vesti di Nuto  amico d’infanzia, falegname e suonatore di clarino, ma soprattutto anima integra e pura.

Attraversa i colli, le valli, i sentieri…”era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale…”
Non c’è più niente come allora ma tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore di allora.
…c’è tanto altro in questo delicato e prezioso capolavoro allusivo ed evocativo. Non mi resta che consigliarne la lettura con la raccomandazione di un approccio molto delicato e maneggiare con cura: contiene un’umanità fragile.

” Gli diceva che sono soltanto cani che abbaiano e saltano addosso ai cani forestieri e che il padrone aizza il cane per interesse, per restare padrone, ma se i cani non fossero bestie  si metterebbero d’accordo e abbaierebbero addosso al padrone.
Diceva che basta leggere il giornale per capire che il mondo è pieno di padroni che aizzano i cani”

Recensione di Patrizia Zara

 

Recensione 3

La persistenza della memoria attraverso un romanzo breve, un capolavoro di scrittura che è la summa di un autore prima dell’epilogo di una vita.

Tralascio l’aspetto della Resistenza che, come sempre in Pavese, che non l’ha fatta, è cosa d’altri. Infinitamente studiata è la memoria intima di un ragazzo senza origini che vuole andar via dalla valle del Belbo per non restare sempre un servo, e va in America e fa i soldi e torna indietro a vedere cosa è rimasto.

 

 

Ritrova Nuto, l’amico di sempre, quello che è coetaneo ma è più grande, e che non è mai andato via da lì, che gli fa da guida nei luoghi e nella memoria, perché aveva capito molto già da giovane e poi ha vissuto là in mezzo alle persone che ora non ci sono più. Anguilla, l’incerto protagonista -perché altri personaggi paiono più protagonisti di lui- ricorda la casa dove è cresciuto prima da garzone e poi da giovane uomo e quelli che vi abitavano.

Fatalità son tutti morti, chi per età e chi, Silvia, Irene, Santina, le figlie del padrone, le signorine di campagna, per disgrazie della vita, per sentimenti non corrisposti. Nel ricordo appaiono sagge le parole di Nuto, che tutti sono ugualmente inquieti, che signori e servi vogliono le stesse cose, che il sangue è rosso per tutti. C’è chi va via a cercar fortuna e chi ci muore.

Poi ci sono quelli sfruttati che si abbrutiscono e danno di matto perchè a fare i mezzadri si muore di fame. Solo Cinto, ragazzino storpio e quasi novello Anguilla, alla fine della tragedia forse trova una speranza. Grande affresco di una società contadina con i suoi riti, dai quali prende titolo il libro, riepilogo di intensi ricordi di una vita, fa trasparire in modo meno esplicito di La casa in collina il dramma di un intellettuale che non si è mai perdonato la mancata partecipazione ad una storia che è stata riscatto di un Paese. Il venticinque aprile ce lo ricorda.

Recensione di Oscar Trezza

Sempre di Cesare Pavese potete trovare altri titoli tra cui La bella estate

LA LUNA E I FALÒ Cesare Pavese

 

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