La narrativa gialla vista dalla parte di chi indaga – L’Ufficiale della Wehrmacht Martin Bora (Ben Pastor)
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Per gentile concessione dell’autrice Ben Pastor (uscito in appendice a “La finestra sui tetti e altri racconti con Martin Bora, antologia Sellerio)
Martin Bora su Martin Bora
Sono nato in una famiglia sassone, anche se da parte materna conto antenati scozzesi. Ho visto la luce l’11 novembre 1913, e avendo perso mio padre Friedrich a sei mesi di età, sono stato cresciuto dal generale Sickingen, secondo marito di mia madre Nina. Avevo un fratello minore (poco più di quattro anni di differenza), Peter, poi caduto nei cieli di Russia durante il 1943.
Da bambino ho frequentato con profitto dapprima le scuole cattoliche e poi il liceo classico. Dopo la maturità (Abitur), sono entrato ancora diciassettenne alla facoltà di filosofia dell’Università di Lipsia, il più antico ateneo tedesco insieme ad Heidelberg. Mi sono laureato con lode sostenendo una tesi sull’Averroismo latino e l’Inquisizione, per poi entrare nella Scuola di Guerra di Dresda. Ho quindi frequentato la Scuola di Cavalleria ad Hannover e la Scuola di Fanteria a Dresda. Questo mi ha permesso di accedere alla prestigiosa Accademia di Guerra nella capitale, da cui, dopo un permesso ottenuto per combattere come volontario filo franchista in Spagna, mi sono diplomato con onore nel 1939. Era l’educazione tipica di un ufficiale destinato allo Stato Maggiore, ma il mio interesse è sempre rimasto quello del servizio di prima linea. L’addestramento nel controspionaggio militare (Abwehr) mi ha portato poi sia all’impiego di ambasciata (Mosca) che al lavoro di ricognizione e intelligence.
Parte dell’educazione in famiglia (anche per controllare gli impulsi sessuali di noi ragazzi) era lo sport. Prima fra tutti l’equitazione: con Nina e il generale Sickingen a volte cavalcavamo per giorni dalla tenuta di Trakehnen a quelle dei vicini e più in là, fin oltre il confine con la Lituania. E poi nuoto, canottaggio, tennis, scalata libera e corsa di montagna (fell running), senza contare le scazzottate infantili e le lunghe gite in bicicletta.
Quanto a pregi e difetti, mi risulta difficile (e Nina disapproverebbe) parlare dei miei pregi. Prima bisognerebbe identificarli, mentre i miei demeriti saltano subito agli occhi. Cominciando dai difetti, dunque, posso dire di avere un carattere rigido, spesso perentorio, a volte scostante, e di aspettarmi che gli altri si adeguino. Essendone cosciente, cerco tuttavia di mitigare queste tendenze. Non accordo facilmente fiducia, e so che posso apparire introverso fino alla chiusura. Si tratta (anche) di timidezza, ma questo non mi giustifica. Severità e ambizione professionale sono qualcosa che ho dovuto imparare a posporre a principi più elevati. Sul versante dei pregi, direi che ho un forte senso della pietas (termine che non si traduce esattamente come pietà o indulgenza; è piuttosto amore per la giustizia nei confronti dei vivi, come pure dei morti). Sono – credo – coraggioso e determinato; mi definirei leale e di parola. La pazienza che mi accompagna da tempo è – per come sono andate le cose – da ascrivere sia tra i pregi che tra i difetti, dal punto di vista politico come da quello personale.
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A casa nostra avevamo una duplice tradizione professionale, legata al servizio nei confronti dello Stato (come militari e diplomatici) e alla promozione della cultura (l’editoria, il patronato delle arti, la musica). La nonna paterna Louise Dorothea von und zu Langenstein teneva un noto salotto letterario-intellettuale a Lipsia, che includeva fra gli altri il pittore Ernst Ludwig Kirchner della scuola Die Bruecke, lo psicologo Hermann Ebbinghaus, studioso della memoria, il romanziere realista Theodor Fontane, e il linguista Karl Brugmann. Mio padre, Il Maestro, frequentava il fiore della musica a lui contemporanea. Il ramo scozzese conta soldati di grande valore, fra cui George William Robert Ashworth-Douglas, eroe di Khartoum insieme a Gordon, e James Alexander Carrick, comandante durante la Ribellione dei Sepoys e nella Seconda guerra dell’oppio, nonché consigliere militare dell’esercito confederato durante la Guerra di secessione americana.
Date le frequentazioni culturali dei miei, non ha stupito la mia scelta di studiare filosofia; forse la famiglia si aspettava che avrei rilevato a tempo debito la casa editrice dei Bora (Bora Verlag), specializzata appunto in testi di filosofia e letteratura, o che avrei amministrato le nostre proprietà, specie quelle della Prussia Orientale. In realtà avevo già deciso di abbracciare la carriera militare, per cui provavo interesse e affinità. Le arti, specialmente la musica, sarebbero state una possibile alternativa. Mi sembrava tuttavia che la nazione necessitasse di buoni ufficiali ancor più che di capaci musicisti. Esibirmi in pubblico è, fra l’altro, qualcosa in cui non mi riconosco affatto.
Devo però ammettere che la musica è la mia principale passione privata. Avendo cominciato a studiare il pianoforte a cinque anni, mi sono presentato con successo come esterno agli esami di conservatorio a Lipsia, e ho continuato a suonare fino all’incidente di guerra che nell’autunno del 1943 mi ha privato della mano sinistra. Pur apprezzandoli, non ho mai desiderato cimentarmi con altri strumenti. Il mio padre biologico era un famoso direttore d’orchestra e compositore. La famiglia ha mantenuto per anni un palco al festival wagneriano di Bayreuth, frequentato, purtroppo, anche da Adolf Hitler. Da tredicenne, grazie alla grande tradizione musicale di Lipsia, ebbi modo di ascoltare dal vivo Richard Strauss. Quattro anni dopo vennero Igor Stravinsky, il fanciullo prodigio Yehudi Menuhin, e Arturo Toscanini con la Filarmonica di New York. Naturalmente Bach, Händel e Mendelssohn facevano parte del nostro ascolto tutto l’anno.
Amo la musica classica (barocca, romantica, ma anche gli esperimenti di fine Ottocento) e operistica (Lohengrin, il Ciclo dell’Anello, L’olandese volante – quest’ultimo un cavallo di battaglia di Friedrich von Bora); fra gli italiani prediligo Puccini (specie il suo ultimo periodo). Non disdegno affatto la musica leggera, i ballabili, Cole Porter e certi chansonniers francesi.
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Quanto alla mia progressiva presa di coscienza degli orrori del nazismo, preludio alla mia attività di resistente al regime hitleriano, non posso negare che da ragazzo, cresciuto nell’ambiente nazionalista e conservatore di una famiglia guidata dal mio patrigno prussiano, avevo accolto con entusiasmo la rinascita della Germania dalle ceneri della Grande Guerra (avevo cinque anni alla fine di quel conflitto). La partecipazione del generale Sickingen ai Corpi Franchi durante i disordini degli Anni Venti ha fatto in modo che vedessi nel patriottismo armato l’unica risposta all’internazionalismo spartachista e di stampo sovietico. Con l’avvento del nazionalsocialismo, e il quasi immediato potenziamento delle Forze Armate, tutti noi soldati ci siamo sentiti vendicati dopo l’ultra punitivo Trattato di pace di Versailles, che accollava tutta la responsabilità della Grande Guerra alla Germania, e la trattava di conseguenza.
Già dal 1937, tuttavia, come volontario nella legione straniera spagnola (il Tercio franchista), ho cominciato a capire che sotto il nazionalsocialismo si celavano ben più che eccessi passeggeri giustificati come lotta per ristabilire l’ordine interno. Il mio lavoro nel controspionaggio estero mi ha parzialmente risparmiato ciò cui hanno assistito i colleghi della Sezione Interni. Dalla campagna di Polonia (1939) in poi, è cominciata la mia resistenza attiva, con la denuncia all’Ufficio Crimini di Guerra dei delitti perpetrati da Gestapo e SS, ma anche dall’esercito tedesco, di cui venivo a conoscenza. Ho anche rifiutato di obbedire ad ordini palesemente contrari all’etica, al buon costume militare e alle leggi internazionali promulgate a Ginevra. Questo non comportava un rischio oggettivo per la mia carriera e anche per la vita? Certo. Sapevo che ne avrei pagato il prezzo, ma lo consideravo poca cosa confronto ai crimini commessi da troppi dei miei connazionali. Ho sempre privilegiato l’opposizione quotidiana e capillare al gesto eclatante, attenendomi al detto latino secondo cui la goccia scava la pietra.
Quest’ultimo è forse l’aspetto che mi differenzia maggiormente da Claus Schenk von Stauffenberg, il coraggioso attentatore alla vita di Hitler durante la cosiddetta “Operazione Valkiria”. Il colonnello conte von Stauffenberg ed io ci conoscevamo appena prima del nostro ultimo e decisivo incontro a Berlino nell’estate del 1944. La nostra comune passione per l’equitazione ci aveva portato ad affrontarci sportivamente nove anni prima, quando Stauffenberg era già sposato con un figlio e io un ufficialetto fresco di nomina ma già, come lui, esperto cavaliere. Incontrarlo nel luglio del ’44 ci ha posto dinanzi ai nostri ideali condivisi, come pure alle nostre divergenze su come attuare un piano di resistenza che potesse porre fine al regime hitleriano. Stauffenberg era un brillante amministratore militare, nei teatri di guerra come pure – dopo le gravi menomazioni subite in Nord Africa – in patria, in qualità di capo di Stato maggiore dell’esercito di riserva. Io avevo combattuto in prima linea su diversi fronti. Conoscevo fin troppo bene quelle che in inglese si definiscono sportivamente the odds, ovvero le possibilità di riuscita di un’impresa. In coscienza, non potevo appoggiare un piano confuso, piuttosto dilettantesco e privo di sponde politiche presso gli Alleati; un progetto che sapevo destinato a un fallimento dalle conseguenze disastrose. Mi sono sentito impotente sia davanti all’inflessibilità di Stauffenberg (che mi considerava già politicamente “bruciato” per i miei trascorsi diverbi con Gestapo e SS), sia davanti al suo oggettivo bisogno di un aiuto che non potevo offrire. La conversazione ha rappresentato un momento particolarmente difficile, per non dire tragico: uno dei peggiori della mia vita.
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Quanto alla mia vita sentimentale, Dikta non è stata la mia prima donna, né io il suo primo uomo. Eravamo indifferenti a tali pregiudizi borghesi. Ci frequentavamo intimamente nonostante e forse anche a causa della feroce opposizione che il generale Sickingen (molto più di mia madre Nina) faceva al nostro idillio. All’epoca lei aveva vent’anni, e io quasi ventitré. Siamo rimasti sposati dal 1941 fino all’annullamento (non per mia richiesta) del nostro matrimonio, ai primi del 1944. È un argomento doloroso di cui forse ho già parlato troppo altrove, e su cui mi è ancora difficile soffermarmi.
Le mie prime esperienze amorose sono state in Italia, e ne serbo un grato ricordo. All’università ho avuto qualche avventuretta con compagne di studi disinibite o con signore che frequentavano Nina o le mie zie. In Spagna, però, il termine di paragone è stato apposto da Remedios, la giovane strega di Mas del Aire. Prima di lei ero un ragazzino cattolico che, essendo entrato nell’esercito, si considerava se non esperto almeno emancipato. Dopo Remedios, che dire? Mi ha reso l’uomo che sono, e l’amante che sono. Il complimento più alto che posso farle è che penserò a lei nel momento della mia morte.
Dopo la fine del rapporto con Dikta, non mi sono mai del tutto ripreso emotivamente. Non ho un carattere facile, e certo ho le mie colpe (fra cui le assenze prolungate da casa, che tradizionalmente i militari di carriera si aspettano di poter infliggere alle mogli). In seguito ho preso comunque delle solenni sbandate, per Nora Murphy, moglie di un diplomatico americano a Roma, come per Anna Maria (Annie) Tedesco sul lago di Garda. Ce ne sono state altre, ma – come insegna Garcia Lorca nel suo poema “La sposa infedele,” – Non dirò, da vero uomo, le cose che mi disse. Posso aggiungere che per me, tranne nel caso di Dikta, le donne in qualche modo inaccessibili hanno rivestito sempre più fascino di quanto esprimesse la loro disponibilità. Solo una volta sono arrivato vicino al rifiuto, da parte di Nora Murphy. Spesso per scelta – e durante il mio matrimonio per fedeltà – ho rinunciato a diverse possibili avventure galanti. La mia donna ideale è proprio ciò che il termine indica. Appartiene al mondo delle idee, e come tale, probabilmente non esiste nella realtà. Forse è un errore da parte mia sperare di incontrarla. Direi che fino ai trent’anni circa ho cercato meramente una compagna di letto e di interessi. La mia definizione di amore? Dedizione, fedeltà. Mi rendo conto che dovrei imparare a mostrare apertamente l’affetto, come faceva mio fratello Peter, ma mi riesce davvero difficile.
E poi i figli che non ho mai avuto. Al riguardo, ho attraversato periodi in cui riprodurmi sembrava l’unico modo di giustificare la precarietà della mia esistenza di soldato in guerra. Probabilmente era il modo sbagliato, e forse anche egoistico, di desiderare la paternità. Dopo la scelta ripetuta di abortire da parte di Dikta, ho cominciato a pensare che il mondo in cui mi muovevo non fosse comunque adatto a una nuova vita. Allora ho desiderato di essere completamente privo di legami e di responsabilità che non riguardassero direttamente la nazione e mia madre Nina. Le morti tragiche in famiglia (il bisnonno, il prozio, due zii, il mio unico e amatissimo fratello), come pure il mio grave ferimento, mi hanno riconciliato con l’idea di vivere giorno per giorno. Ho cominciato a dirmi: “Se i figli verranno, bene. Altrimenti, i Bora finiscono qui, e cercherò di farli finire onorevolmente”. Non mi sono mai visto attorniato da nipoti, ma dopotutto non immaginavo nemmeno di sopravvivere all’inferno di Stalingrado, eppure è successo…
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Sono cresciuto in una famiglia di cattolici osservanti, in una Sassonia dove meno del 20% della popolazione era fedele a Roma. Inoltre, e paradossalmente, i Bora discendono dalla ex suora Katharina von Bora, moglie del grande riformatore Martin Lutero. Hanno attraversato lunghi periodi di persecuzione durante le Guerre di religione, allorché adottarono il motto paolino Fidem Servavi: ho mantenuto la fede. I miei antenati ospitarono segretamente sacerdoti quando a Lipsia non esistevano più chiese cattoliche in cui celebrare la Messa. Sono stato educato nella fedeltà al Papa, e ho avuto fin da bambino maestri spirituali e confessori degli ordini gesuita ed agostiniano. Tutto ciò che si dice a proposito dell’educazione cattolica – sensi di colpa, frustrazione sessuale, ansia di redenzione – è tristemente vero e ha fatto parte della mia giovinezza. Non che non abbia tralignato od opposto forti riserve filosofiche nei confronti della Chiesa, ma in fondo sono sempre restato un credente e un cattolico, sia pure “non allineato” e con qualche convinzione di marca protestante. Quanto alla figura di Dio, quello che noi tedeschi chiamiamo Herr Gott, da laureato in filosofia ho difficoltà a ridurla ad una dimensione contabile e fiscale. Ho sempre sperato e spero ancora che, quali che siano le mie apparenze, Lui mi legga nel cuore.
Per gentile concessione dell’autrice Ben Pastor ( uscito in appendice a “La finestra sui tetti e altri racconti con Martin Bora, antologia Sellerio)
LA SINAGOGA DEGLI ZINGARI Ben Pastor
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