
LA RAGAZZA DI SAVANNAH, di Romana Petri (Mondadori – febbraio 2025)

«Al dolore di essere malata e di essere donna, ha dovuto spesso aggiungere gli scherni dei giornalisti che la definivano una zitella storpia che viveva con la madre perché non indipendente. Amore e rabbia hanno dominato la sua vita. L’amore le ha fatto accettare la grazia, a qualunque prezzo. Ma la rabbia l’ha tenuta in piedi fino all’ultimo. E lei non aveva dubbi, per amare ci voleva anche tanta, tantissima rabbia».
Con queste parole Romana Petri chiudeva alcuni anni fa la sua introduzione a una raccolta di racconti di Flannery O’Connor intitolata “Punto Omega” , dal titolo di uno degli ultimi scritti in vita dall’autrice americana.
Alla vita di O’Connor è dedicato il nuovo romanzo di Romana Petri, “La ragazza di Savannah”, pubblicato alcune settimane prima del centesimo anniversario di nascita della geniale scrittrice.
Un libro che è fuoco puro. Arde, crepita, scotta, come la breve esistenza di cui racconta. Romana Petri entra nella testa della giovane Mary Flan (come viene chiamata nel romanzo) e ne ri-scrive la vita.
Si ha la sensazione, leggendo, di assistere a una sorta di reincarnazione. Romana diventa Mary Flan. Diventa i suoi occhi e la sua voce, aderendo completamente a lei: non con la precisione o la veridicità del dato biografico, quanto con la profondità del suo sguardo, l’originalità della sua voce, la rivoluzione copernicana della sua scrittura.
È «letteratura su letteratura», scrive in modo molto efficace Nadia Terranova: «una storia che colma le lacune biografiche e illumina una vita intera da prospettive più insolite».
Un «bellissimo romanzo sull’indocilità del talento femminile, quindi è un romanzo di madri, di genealogie», aggiunge Terranova, sottolineando la centralità del personaggio di Regina Cline, la mamma di Mary Flan: una donna condannata a convivere con il macigno della consapevolezza che, quasi certamente, sopravvivrà alla figlia gravemente malata.
La malattia che la consuma giorno dopo giorno è per Mary Flan una compagna di viaggio, fedele e inseparabile, che la costringe a rallentare e talvolta a interrompere il lavoro.
«Non vorrei essere fraintesa» scrive Romana/Mary Flan in una delle molte lettere che arricchiscono il romanzo, «ma io non sono mai praticamente stata in nessun altro luogo che non fosse la malattia. Sì, hai capito bene, ho detto luogo. E ti garantisco che è più istruttivo di un viaggio in Europa. È un luogo dove non può accompagnarti nessuno, capisci? Ci stai sempre da solo. E il tuo tempo per capire le cose cresce, lievita a dismisura. È una vera benedizione del cielo».
Il binomio fede-scrittura è talmente saldo e indissolubile che sembra impossibile scindere l’una dall’altra, nella vita di Mary Flan. La scrittura diventa essa stessa un atto di fede, esercizio ripetuto, indefesso, ininterrotto. Scrive, Mary Flan, per ore e ore, ogni giorno, a costo di peggiorare il suo precario stato di salute.
Alla realtà che osserva e che racconta, dopo infinite correzioni e riscritture, Mary Flan applica il filtro della letteratura (per usare una espressione cara a Javier Marías): un filtro incandescente e infuocato, che ha la potenza di una scossa tellurica e la violenza di una Apocalisse.
Solo chi ha conosciuto il peccato, solo chi lo ha sfiorato, si è lasciato sedurre e ci è caduto, solo chi è si è abbandonato al suo abbraccio, potrà conoscere la redenzione e incontrare la grazia.
Dalla sua finestra sul mondo, la fattoria di Savannah in Georgia, circondata dai suoi amati pennuti (polli, tacchini e soprattutto pavoni), questa geniale donna, fragile e fortissima, osserva la realtà e la riporta su pagina, la trasfigura, popolando le sue storie di predicatori folli, peccatori, reietti.
Perché il cielo sarà degli ultimi, dei violenti, se questi avranno la forza e il coraggio di incontrare Dio.
Romana Petri
“La ragazza di Savannah”
Mondadori.
Recensione di Valerio Scarcia
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