LA SPOSA VERMIGLIA, di Tea Ranno.
Traendo spunto da una storia vera, la scrittura sensuale e raffinata di Tea Ranno mi trasporta nella Sicilia degli anni ’20, facendomi sentire il sapore agro dei limoni, il profumo inebriante dei boccioli di rosa in primavera, la salsedine aspra di cui è intrisa la brezza che arriva dal mare.
Mi narra così di Vincenzina Sparviero, giovane donna destinata da volontà paterna a un matrimonio di convenienza con un vecchio ed infame signorotto fascistone e puttaniere, di lei che cede come una colombella a questo volere pur di superare il senso di colpa che la lega alla scomparsa improvvisa dell’amata sorella, di Filippo Gonzales, giovine di cui realmente si innamora scompigliando le carte che il destino malevolo le ha apparecchiato, della colomba che si trasforma in risoluto sparviero di fronte all’evidenza ineludibile di un sentimento.
La storia intreccia subito i connotati del romanzo con le tinte del dramma e si avvicina sempre più, inesorabilmente, a un precipitare degli eventi di cui si ha sentore fin da subito. Ma l’abilità della scrittrice non sta tanto nei fatti raccontati, quanto nella capacità di rendere appieno l’aspetto chiaroscurale di una terra barocca, fatta di eccessi, di opposti, di tinte veraci che riescono ad intridere di sé i gesti, gli sguardi, le parole; una terra ancora ligia a regole sociali ferree, a una presunta civiltà dell’onore e del decoro che spesso nulla ha a che fare col senso reale di queste parole, ad una ritualità ossessiva che si fa pura forma priva di sostanza.
Il progressivo avvicinarsi di una catarsi finale viene scandito dallo scorrere di giornate segnate da piccoli ma importanti eventi, definiti con preziosità di particolari perché tutto sia chiaro, perché ci si addentri sempre più nell’animo dei protagonisti, nei loro pensieri che sanno di luce o di tenebra, nei loro desideri o nelle loro smanie, in una dimensione in cui la realtà talvolta si confonde con il sogno, e il mondo dei vivi non è così lontano da quello dei morti o di quello che i vivi saranno anni dopo, quando il dramma si sarà compiuto e ciascuno, a proprio modo, ne porterà i segni indelebili nell’anima.
Una scrittura in cui ritrovo echi di alcune figure femminili verghiane o di certi maschi impenitenti di Brancati, dell’inchiesta straniante, alla Sciascia, di chi viene da fuori e deve capire come in certi luoghi la follia talvolta nient’altro sia che il più imprevedibile manifestarsi della ragione.
Una storia che come la vampa accecante dell’estate sicula viene inghiottita dalla sua stessa furia ma di cui, a fine lettura, resta impressa nella mente e nel cuore la cantilena delle nenie antiche, quelle che sanno di dolce e inconsolabile struggimento:
“Amuri ca mi teni e’ to’ cumanni,
unni mi porti, duci amuri, unni?”
(Amore che mi tieni ai tuoi comandi,
dove mi porti, dolce amore, dove?)
Recensione di Magda Lo Iacono
LA SPOSA VERMIGLIA Tea Ranno
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