L’ARGATIL, di Gabriella Montanari (Whitefly Press – maggio 2021)
Gr. 594
Tanto pesa L’Argatil. Terminata la lettura ho istintivamente messo il libro sulla bilancia. Non mi era mai capitato di voler dare un ‘peso’, ossia rappresentare con un valore di grandezza, la consistenza fisica di un libro. Ho avuto la necessità di ridurre a fisicità la quantità di materia che lo compone: pagine, inchiostro, copertina.
Atto sicuramente metaforico; è stato un impulso a tracciare il peso dell’anima e della vita qui raccontata. E forse, questa, è stata la mia ‘parte’ di lettrice, perché “sì, ho paura, perché io so cos’è!”
Il romanzo di Gabriella Montanari è esattamente l’opposto di quei ‘contenitori di miseria’ che sono stati i manicomi, di quei luoghi in cui ‘l’intera tavolozza umana aveva trovato posto … e sul collo col fiato nauseabondo delle arpie intonacate che comandano su tutto e tutti”.
L’Argatil è ‘un pesce che sogna’… in un mondo di disamore.
Nell’Argatil c’è tanta bellezza, quella che unisce la mente al corpo, la poesia alla prosa “in questo consiste, il rito: stendere le mie giornate in versi, purificarmi dall’ingombro dei ricordi e poi assassinare le parole, farle volare con me nell’alveare che ignora la decadenza e gli escrementi.”
Un’abile e curatissima opera letteraria (tra romanzo, biografia, autobiografia e indagine quasi poliziesca) che ci fa percorrere attraverso tre voci narranti, quelle della Poetessa, del Poeta e dell’Editrice, un viaggio nell’incubo della vita manicomaniale e al tempo stesso nell’arido e ambiguo mondo dei colti che ha volutamente e con ipocrisia ridotto per anni all’oblio letterario l’opera di una straordinaria donna e poetessa, Maria Marchesi, che proprio da quel luogo nascosto che era Santa Maria della Pietà, traeva linfa per scrivere.
“Mi chiamo Maria. Qui dentro mi chiamano ‘a poetessa. Da fuori nessuno mi chiama più, da tempo”.
Un vero e proprio voyerismo da cui trarre ‘il pungolo per guardarsi dentro e riconsiderare il marciume con indulgenza’.
Gabriella Montanari riesce a dimostrare come la carta e la penna ripuliscano l’anima ed esorcizzino l’inferno dei corpi. I corpi, sempre descritti nei loro dettagli, che appartengano alle povere internate o alle infermiere, al poeta appesantito e sudato o alla volgarmente simpatica editrice romagnola o ai vanitosi letterati. Ciò che importa è che il cuore non si ammali di cataratta, non si opacizzi.
E questo avviene con la poesia, quando si vuole lasciare una traccia di ciò che è stato, come ha fatto coraggiosamente l’autrice. Si è esposta, si è tormentata e ha fatto in modo che il Catto-Poeta liberasse il proprio doppio, all’or quando ‘il vento buono di primavera strusciandosi contro i vetri liberava speranze’.
Quella con la letteratura e la poesia sono storie d’amore. Nella prima le zone d’ombra devono restare tali, nella seconda “la carne si rigenera” e niente è più sedato dalla contezione chimica.
Recensione di Nunzia Cappucci
L’ARGATIL Gabriella Montanari
Commenta per primo