Dickens ha questa capacità narrativa straordinaria: riesce a parlare di tutto, dagli argomenti più leggeri e frivoli a quelli più importanti e tragici, e lo fa sempre con una bravura non comune, utilizzando in maniera sorprendente i registri più diversi: dal comico al tragico, dal solenne all’informale.
“Le due città”, o nella versione originaria “Racconto di due città”, parla effettivamente di due metropoli: Londra e Parigi. Dickens le mette a confronto, facendo interagire e scontrare tra di loro personaggi di vario tipo e di diversa estrazione sociale, francesi e inglesi.
Racconta la storia di un medico, Alexandre Manette, rimasto chiuso nella Bastiglia per 15 anni e divenuto eroe popolare e simbolo della rivolta negli anni del Terrore. Racconta di sua figlia, Lucie, e del marito di lei, Charles Darnay, ex aristocratico che ha ripudiato la sua vita passata troppo tardi per ottenere il perdono dei rivoluzionari. Ci narra di un nugolo di personaggi che ruota attorno a queste figure, tutti dotati di un’umanità profonda che non lascia indifferenti. Ma soprattutto, ci riferisce di una donna, Madame Therese Degarde, e di un uomo, l’avvocato Sydney Carton, impegnati l’una, inesorabile e inflessibile, a tessere una trama di vendetta e orrore, l’altro, tormentato e inquieto, a disfarla.
“Racconto di due città” mi è piaciuto tanto.
È un romanzo storico (l’unico, a quanto pare, di Dickens), ma costruito come un vero e proprio noir anti-litteram, quasi un thriller. Segreti inconfessabili e rivelazioni sconvolgenti portano avanti una trama che tiene il lettore avvinghiato a sé, nonostante lo stile sia tutt’altro che contemporaneo e quindi a tratti ridondante, barocco, retorico. (E ci mancherebbe! È Dickens, ovvero uno dei capostipiti del romanzo ottocentesco.)
E poi, ci sono le pagine in cui Dickens racconta la Rivoluzione e il Terrore: pagine impressionanti, sconvolgenti, indimenticabili.
Storico, thriller, noir e a tratti persino horror.
Un romanzo sui generis che piega i generi letterari al servizio di una storia d’amore, di orrore e di pietà.
Recensione di Attilio Facchini
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