LE MILLE LUCI DI New York, di Jay McInerney (Bompiani)
Vivi a New York in un edificio sulla Dodicesima Ovest, sei sposato con una modella originaria di Kansas City e lavori al reparto verifica dei fatti di una storica rivista chic della città. Mancano solo i bambini per fare di te l’emblema del sogno americano degli anni ottanta. Accade però che tua moglie, donna di famiglia modesta cresciuta senza padre e con una madre al limite della decenza genitoriale, inizi a entrare in un meccanismo diverso fatto di viaggi, passerelle, hotel extra lusso e uomini Odisseo. Mettendo insieme le cose succede che un giorno tua moglie ti chiami dall’Europa per dirti che non farà ritorno a casa. Tu dici ok, le dici che non fa nulla e che la aspetterai con il prossimo volo, ma lei ti risponde che non si tratta di voli persi ma di carriera e opportunità.
La telefonata si interrompere senza che tu possa chiederle ulteriori spiegazioni e ti ritrovi sulla Dodicesima Ovest in piedi a fissare la parete del tuo appartamento con la cornetta in mano e un’improvvisa sensazione di vuoto e incredulità. Nei mesi che seguono la telefonata decidi di lasciarti andare: hai solo bisogno di non pensare e, per raggiungere il tuo scopo, arrivi a testare i tuoi limiti fisici e psicologici. Ti lasci inghiottire dalle luci di New York che prima non conoscevi -o fingevi di non conoscere perché troppo impegnato nel perseguire il tuo sogno, e dentro quelle luci trovi fiumi di alcol e grammi di cocaina tagliati in ogni modo possibile. Inizi a dormire poco o nulla, mangiare non se ne parla e senti il tuo naso trasformarsi sempre di più in un agglomerato di polvere secca e muco.
La seconda convocazione nell’ufficio del tuo capo, una donna severa e fredda più di un carro armato sovietico, non è per l’ennesimo richiamo ma per comunicarti il tuo licenziamento in tronco. Ovviamente i tuoi genitori non sanno nulla di tutto ciò, per loro Amanda -tua moglie- è in giro per il mondo o a fare la spesa o troppo impegnata in cucina. Ma gli dèi, il destino, la luna o le maree hanno in serbo per te una via d’uscita, un’ancora dove aggrapparti per non sprofondare definitivamente negli abissi. Devi solo fermarti un attimo a ricordare chi sei, da dove vieni e provare a trovare una spiegazione logica del perché, pur sognando e lottando per raggiungere il paradiso, sei finito dritto all’inferno.
Perché tu non sei fatto per l’inferno, ti sei adattato ad esso pregandolo che ti anestetizzasse i ricordi, lo hai lasciato fare il suo sporco lavoro pur di dimenticare la vita passata e cancellare i sogni di quella futura. Le righe di cocaina sullo specchio di casa tua, i drink senza ghiaccio, il valium, i cucchiaini per scaldare la dose, le sniffate dentro i bagni dei locali: tutto questo è un fumo velenoso e devastante utile solo a coprire la tua natura fragile e la sensazione logorante di camminare ogni giorno su un filo sottile in perenne equilibrio tra sogno e realtà.
McInerney non ha ancora trent’anni quando esordisce con questo romanzo costruito con un lessico asciutto, periodi brevi ma diretti e personaggi descritti in maniera essenziale. Il tema principale del romanzo è la fragilità di cui siamo impregnati ed i metodi, più o meno buoni, che adoperiamo per provare a rimanere intatti senza ferire più del necessario organi utili alla nostra sopravvivenza.
Recensione di Daniele Galli
LE MILLE LUCI DI New York Jay McInerney
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