IL MIGLIORE DI Joël Dicker – L’ENIGMA DELLA CAMERA 622 (La nave di Teseo – giugno 2020)
Stando a quanto ho letto di Dicker fino ad ora, (“Harry Quebert” e “Stephanie Mailer”), penso che questo possa meritare il primo premio in assoluto in quanto a effetto divisivo. Personalmente l’ho trovato un piccolo capolavoro per vari motivi che andrò a raccontare adesso, ma immagino che gli stessi motivi saranno quelli su cui i detrattori andranno a far presa. Come dicevo, è un libro fortemente divisivo.
Leggo dalla dedica che questo libro è dedicato alla memoria di Bernard de Fallois, l’editore di Dicker. Di suo questa frase potrebbe non voler dir molto, in fondo ne troviamo moltissime di queste cose nei libri che leggiamo, ma poiché quel nome mi era familiare ho controllato e scoperto che lo stesso testo era apparso in “Stephanie Mailer”. Una breve ricerca su Google mi ha fatto scoprire che effettivamente è stato un importantissimo editore francese, un “mostro sacro”. Perché è così importante questo fatto? Perché questo libro non è dedicato a lui solo nel senso della frase in apertura che ho riportato prima, ma, in mezzo alla storia narrata la vita di questa persona viene ricordata con molti “cameo”.
Riporto un breve estratto da una intervista di Dicker al Corriere della Sera: “[…] era una persona unica. Un uomo pieno di benevolenza e di curiosità, faceva un sacco di domande perché voleva capire le persone. Quando è mancato mi sono messo subito a scrivere su di lui, volevo fissare il ricordo prima che diventasse opaco. Pensavo di pubblicare un piccolo libro, poi ho pensato di mettere tutti questi episodi di vita vissuta con lui all’interno di un romanzo un po’ all’antica […]”.
Questo lungo preambolo è utile a capire un po’ il contesto del libro, ed è uno degli elementi che contribuisce a renderlo così divisivo. Come spesso accade nei suoi romanzi l’autore tende a mescolare una finta realtà (nel senso che è comunque fiction, ma dà l’impressione che sia reale) con la storia vera e propria, ma qui raggiunge l’apoteosi: racconta di sé stesso, della sua (più o meno) vera vita di scrittore, e con un simpatico escamotage narra al lettore di come ha cominciato ad interessarsi di questo mistero, portandolo a credere che anche questo Palais di Verbier sia davvero esistente e realmente stato teatro di questo omicidio.
Veniamo quindi alla storia. Come suo solito è molto corposa, nell’edizione italiana consta di circa 630 pagine, ed ha una suddivisione in parti e capitoli che obbliga a leggere piano, altrimenti non ci si riesce più a raccapezzare. Se fino ad ora ci aveva abituati a salti avanti e indietro nel tempo, qui gli eventi narrati sono divisi in tre momenti cronologici diversi: l’”oggi attuale” (il 2018, e cioè quando Dicker, nei panni di sé stesso racconta delle sue ricerche su questo mistero), l’”oggi degli eventi”, (non ci è dato sapere quanto tempo prima rispetto all’attuale, ed è quando avviene l’omicidio), ed infine i “fatti pregressi” (circa 15 anni prima rispetto all’omicidio, che narra tutta una serie di avvenimenti che hanno poi portato agli sviluppi descritti). Inoltre la formula delle vicende narrate in prima persona dagli occhi dei personaggi qui non è usata: Dicker racconta in prima persona solo quando parla di sé, ma tutti gli eventi sono raccontati in terza persona, di volta in volta seguendo gli stati d’animo dei vari (numerosissimi) personaggi.
La cosa genera confusione? Sì, parecchia. Ma è il suo bello. Perché a un certo punto (abbastanza presto), per riuscire a capire cosa diavolo stia succedendo, quando e perché, devi concentrarti davvero tanto, quasi a livello di “studio” e non di semplice “lettura”, e questo ti cala letteralmente nel teatro degli eventi, facendotelo vivere appieno. Ecco, diciamo che non è una lettura facile e di semplice svago, gli eventi narrati sono troppo interconnessi in uno spazio temporale molto ampio per poter essere gestiti con un “mi leggo una decina di pagine prima di andare a letto”. Io ci ho messo tre giorni, consecutivi, e dedicando la maggior parte della giornata a questo, e ciononostante ogni tanto dovevo tornare indietro perché per la foga di vedere la fine mi perdevo qualche pezzo. È stato faticoso ma ne è valsa davvero la pena.
Parlando della storia in sé, mi ha ricordato un po’ “I promessi sposi”. Nel senso che, calata nel contesto di una tragedia, l’asse portante è una storia di amore molto travagliata, con un numero infinito di colpi di scena e di complicazioni alimentate dalle caratterizzazioni peculiari dei personaggi (nemmeno qui manca la madre rompicoglioni, e a proposito di questo c’è una chicca all’interno del romanzo stesso). Il campionario dei vizi e delle virtù umane è ancora una volta ben rappresentato, e sebbene a volte sembra quasi di assistere a una telenovela, se ci si ferma un attimo a pensare si arriva a realizzare che purtroppo i fatti di cronaca talvolta superano la fantasia.
Per via di come gli eventi si dipanano, qualcuno potrebbe ritenerla troppo inverosimile. Partendo dal fatto che è finzione, e che pertanto gode di un certo diritto alla “sospensione dell’incredulità”, nemmeno io sono così sicuro che le cose potrebbero funzionare per come sono raccontate, ma è altrettanto vero che ho visto film e letto libri con soluzioni davvero fuori da ogni logica di realismo. Quindi, visto che in questa narrazione le cose non appaiono così platealmente assurde ed implausibili, lascio il beneficio del dubbio.
Un’altra considerazione che vorrei fare a proposito di questo libro (ma anche di altri suoi), è che viene spesso imputato il fatto che sono troppo lunghi e prolissi. Diciamo che potrebbe anche essere vero, ci sono alcuni passaggi che effettivamente sembrano “inutili”, ma a ben guardare è tutto calcolato per obbligare il lettore a calarsi fino in fondo nella storia e apprezzarne ogni singola sfumatura. Tornando all’esempio di prima, è un po’ come leggere “I promessi sposi” nel suo testo originale, o il suo Bignami: il succo non cambia, ma il modo in cui viene fruito fa la differenza. O, se volete un altro esempio, se vi serve una scodella potete andare all’Ikea e comprarvi un pezzo di terracotta smaltato bianco che assolve perfettamente al suo compito, oppure andare in un negozio di arte orientale e comprare il suo omologo, ma con le lavorazioni in oro zecchino e gli arabeschi fatti a mano; la funzione non cambia, ma il valore artistico sì. È solo questione di gusti e dell’importanza che si dà a questi aspetti.
Per concludere, è un libro lungo e per certi versi difficile, ma l’ho trovato meraviglioso.
Recensione di Mitia Bertani
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