LETTERA DI UNA SCONOSCIUTA, di Stefan Zweig
Recensione 1
“L’amore non dà nulla se non se stesso, non coglie nulla se non da se stesso.
L’amore non possiede, né vorrebbe essere posseduto, poiché l’amore basta all’amore”. Kladil Gibran
E io aggiungo che l’amore non è un sentimento che si disperde nelle chiacchere, che si logora con le confidenze; l’amore vuole essere soltanto essere riconosciuto nel silenzio di uno sguardo, nelle vibrazioni febbrili della pelle, nelle grida mute di un corpo in trepida attesa.
Lo sapeva molto bene il nostro caro, dolce, amabile Stefan Zweig quando scrisse “Lettera di una sconosciuta “.
La sconosciuta, anonima figlia del dio Eros, nel suo primo e ultimo sfogo epistolare, non ha chiesto mai nulla, non ha mai gridato nulla.
Si è dissetata del suo stesso amore verso un uomo incapace di rinoscerlo.
Lei, la sconosciuta piccolo borgese, timida e riservata, già innamorata di un mondo a lei precluso prima di conoscere il suo principe addormentato, vittima questo dell’incantesimo della fugacità, della cortese indifferenza e dell’amabile superficialità, scopre cos’è sentirsi sconosciuta agli occhi di Cupido.
Lei, fantasma senza volto, è attratta da ciò che non ha, da ciò che non conosce, curiosa di oggetti, odori, suoni a lei ignoti, contemplando quel mondo incantato, l’antro di Aladino, ore e ore attraverso un pertugio di vetro.
E si nutre, già, di ammirazione verso quell’universo che le appare infinito.
E quando in quel mondo dorato appare il suo principe distratto, sente il fragore del suo piccolo cuore caduto nella trappola di quel nobile sentimento, universalmente infinito, aggrappandosi a questo fino alla fine terrena.
Nella consapevolezza che “L’amore vero essendo infinito ed eterno non può essere consumato che nell’eternità” (Aldons Huxkey), lei, la sconosciuta, non lo richiede, non lo reclama poiché spera, con struggente desiderio, che quell’incantesimo possa essere rotto e il suo amore rispecchiarsi negli occhi dell’amato. Soltanto così può gridarlo oltre i confini.
Ma rimane muto, silenzioso in quel piccolo cuore.
No, non è ossessione come i più potrebbero pensare. L’ossessione esiste soltanto quando si tortura l’essere amato e lei, l’impalpabile, eterea sconosciuta, non lo fa, mai!
Non è pazzia. Lei è lucida, consapevole.
È amore, quello fedele, generoso, innocente, ardente che non si dissipa in una precoce, egoistica confessione.
È quell’ amore di appassionata venerazione che si contiene tutto in una morsa e nelle rose bianche in un vaso azzurro.
Delicato come i petali di quelle rose candide che scandiscono anno per anno il tempo che scorre indolente, il piccolo romanzo di Stefan Zweig, sensibile conoscitore dell’animo femminile, è una perla rinchiusa nel suo guscio che aspetta trepidante che venga riconosciuta fra la gazzarra di false luci della ribalta.
Chissà quante sconosciute!
N.B. mi sarebbe piaciuto leggermi in un libro di Stefan Zweig
Recensione di Patrizia Zara
Recensione 2
Consacrazione: è il sostantivo, l’atto che regge tutto questo racconto.
Dolore: è il sentimento che trasuda questa lettura.
Non è inusuale consumarsi per amore, anzi. Interiorizzare così tanto questo sentimento fin dalla tenera età e portarselo dentro fino alla morte e morirne, credo sia un mode ripetuto nella letteratura e nella poesia. Tuttavia, leggere questo breve romanzo di Zweig è stato doloroso, commovente, finanche angosciante e disturbante. Perché? Perché è un dolore senza via d’uscita, non è salvifico né catartico e ad un certo punto l’ho sentito decisamente autoinflitto.
Zweig con uno stile indiscutibile, accorato, pulito descrive in poche pagine la vita di una donna che si svela, con una lettera, ad un affermato e affascinante romanziere, il giorno del suo quarantesimo compleanno <<permettimi, amore mio, di raccontarti tutto, tutto da principio>>. Quel giorno R. non riceverà le solite e anonime rose bianche <<… lo sguardo cadde allora sul vaso azzurro, lì davanti a lui sulla scrivania. Era vuoto, vuoto per la prima volta dopo tanti anni nel giorno del suo compleanno>>, ma una lettera straziante. La lettera di una donna che non gli è sconosciuta, dalla quale ignaro ha avuto un figlio, ma di una donna “non riconosciuta” <<A te, che mai mi hai conosciuta…>>, <<tutti mi hanno hanno voluto bene, tu, tu solo non mi hai mai riconosciuta>>.
È questa, per me, la dichiarazione straziante sulla quale si apre e chiude il sipario di questa vita.
Da un lato l’atavico narcisismo maschile e dall’altro uno stato che non vedo né come ossessione o follia o amore, bensì una consacrazione pura, ardente e insensata. Una donna trafitta.
Una vita intera è stata consacrata ad un uomo con tutta la trasformazione interiore che in sé comporta questo atto: passare dal profano al sacro. Quella sacralità che diventa un assoluto, che vince la stanchezza e il tempo e si astrae dal corpo ceduto senza onore e infamia <<mi sono venduta, non è stato un sacrificio … tu, il solo cui il mio corpo apparteneva, e mi era indifferente ciò che a quel corpo poteva accadere>>.
Mai lei chiede o si aspetta qualcosa, mai aspira davvero ad una vita con lui; vorrebbe, essere solo ‘riconosciuta’.
Un’abnegazione inverosimile come solo nella letteratura di un certo livello si può leggere <<Trasalì, sgomento … percepi’ una morte e un amore immortale>>.
Un libro struggente, sì. Una donna che è <<una musica lontana>>.
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