L’ULTIMO LENZUOLO BIANCO, di Farhad Bitani (Neri Pozza – ottobre 2020)
L’ultimo lenzuolo bianco è quello con cui Farhad, caduto per un periodo in una situazione estrema di povertà sotto il governo dei Talebani in Afganistan, si copre la notte, per ripararsi dal freddo e sfuggire agli incubi che lo perseguitano. Ma il padre di un suo caro amico muore e la famiglia è così povera da non sapere come inumarlo: la madre di Farhad, un esempio di umanità per tutto il libro, lava il loro ultimo lenzuolo bianco e lo dona alla famiglia ancora più bisognosa di loro.
E’ un libro crudele, tragico, drammatico, quello di Farhad Bitani in cui ci narra senza veli o propaganda l’Afganistan degli ultimi 30 anni: lo scrittore è il figlio di un importante generale mujahed e fa la bella vita fino a quando salgono al potere i Talebani: il padre viene allora imprigionato e condannato a morte. Cercherà di scappare due volte, la seconda con l’aiuto dei mujaeddin e arriverà finalmente libero in Iran. Mentre il padre è in prigione e fino a quando non riescono a raggiungerlo Farhad e la sua famiglia vivrà in uno stato di povertà estrema, senza vestiti, senza cibo, ma soprattutto dovrà sottostare alla prepotenza (non trovo un termine più forte) dei Talebani): assisterà a lapidazioni, tagli delle mani, uomini e donne percossi senza ragione. La televisione verrà bandita, la musica sarà vietata, la preghiera ed i precetti coranici mal interpretati diverranno un pretesto per aggredire non solo gli avversari ma chiunque venga trovato per strada.
Torneranno poi al potere i mujaeddin ma cambierà poco: Farhad diverrà un capitano dell’esercito afgano ed assisterà ad atrocità di ogni tipo fino a quando verrà a studiare in Italia e grazie alla conoscenza di persone semplici gli insegnamenti della madre prenderanno piede e deciderà di abbandonare tutto: chiederà l’asilo politico ed inizierà a raccontare la sua storia e quella del suo martoriato Paese, fino a scrivere questo tremendo libro.
Non ci sono buoni o cattivi, tra i potenti in Afganistan: non importa se mujaed o talebano, la maggioranza è corrotta e malvagia, utilizza il proprio potere per fare tutto ciò che desidera, con l’unico scopo di schiacciare a terra il popolo, lasciandolo nell’ignoranza e nella paura, riuscendo così a mantenere il potere con il terrore: “Oggi, quando ripenso al passato, mi convinco di aver abitato in un altro mondo, in un altro universo. Penso: forse l’ho sognato, non è mai successo tutto questo, non può essere successo davvero. Ma non è così, purtroppo. Lo so, sembra una favola nera dove i personaggi cattivi sono esageratamente cattivi, ma io, queste cose, le ho vissute. Durante la mia infanzia e anche dopo, nell’adolescenza, non ho mai visto il rispetto per le persone, né al tempo dei mujaheddin, né al tempo dei talebani. Veniva rispettato chi era più forte, chi aveva il potere. Ma come si può chiamare, questo, rispetto? No, quella era paura, sottomissione. Vengo da un mondo dove i giovani non avevano rispetto per le donne, per i bambini, per gli anziani. Tante, troppe volte ho visto i talebani picchiare uomini dai capelli ormai grigi solo perché la barba era troppo corta, o perché non andavano a pregare” (cit).
Il racconto di Farhad è un pugno al cuore in ogni momento, in ogni riga: la crudeltà è raccontata con una semplicità disarmante così come i pochi gesti di bontà. Spicca al centro del libro la madre, donna forte capace di resistere ai rovesci di fortuna e che cerca di far comprendere ai figli, ma soprattutto al piccolo Farhad, che in ognuno c’è un puntino bianco di bontà da preservare con cura e da ricercare in ogni uomo. Saranno gli insegnamenti della madre ed il suo esempio a guidare Farhad fino alla scelta definitiva di abbandonare l’Afganistan ed il proprio ruolo privilegiato per una vita diversa ma guidata da ideali veri: raccontare l’Afganistan ed i suoi orrori, le ingiustizie, la corruzione, le torture, gli omicidi per insegnare ai ragazzi ed agli uomini di oggi che c’è una strada diversa da percorrere.
Non è un libro scritto bene, con formule di stile o frasi studiate: è più un flusso di pensieri e ricordi, ordinati cronologicamente, ma senza un rigido schema. Farhad si muove avanti e indietro nella sua storia ed in quella del suo Paese, per far conoscere la verità sempre negata: “Ci sono persone che scrivono libri perché il loro lavoro è scrivere libri. Per me non è così. Non sono uno scrittore. Io sono un militare e mio padre è un generale afghano. Ho studiato Scienze strategiche in Italia, all’Accademia Militare di Modena e alla Scuola di Applicazione e Istituto di studi militari. E nel mio paese ho fatto la guerra, come fanno tutti i soldati. Ho incontrato gli sguardi dei nemici, abbiamo fiutato il terrore l’uno dell’altro, i battiti impazziti. Ho vissuto la paura, la fuga, il coraggio della disperazione. Ho sparato, ho ucciso. Sulla spalla sinistra porto la traccia della ferita di un kalashnikov. Gli altri segni, quelli invisibili agli occhi, sono rimasti nel cuore, nella testa, nel modo che ho di guardare la vita.” (cit.).
E’ un libro vero in ogni senso, che ognuno di noi dovrebbe leggere, perché solo la conoscenza può vincere l’ignoranza e l’odio che ne deriva.
Recensione di Giulia Quinti
L’ULTIMO LENZUOLO BIANCO, di Farhad Bitani
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