L’UOMO CHE VOLEVA ESSERE COLPEVOLE, di Henrik Stangerup (Iperborea – aprile 2023)
“L’ uomo si era reso padrone di tutto, diventando preda di un’incommensurabile tristezza che lo rendeva incapace di difendersi dall’oppressione”
Non amo particolarmente i romanzi di genere dispotico. Tuttavia quando mi imbatto nella lettura di libri del genere, consigliati o regalati, di un certo valore letterario, rimango sempre affascinata dalla capacità degli autori di prevedere un futuro prossimo così realistico.
È il caso di Orwell ed è il caso di Henrik Stangerup.
Autori abbastanza lucidi e disincantati, conoscitori non solo dell’andamento travagliato dell’animo umano ma anche del processo di smantellamento ideologico di un’umanità destinata a perdersi.
In una Copenaghen dove è stato cancellato ogni senso di colpa, aboliti i termini di ogni forma di reato a favore delle circostanze, si muove Torben, scrittore ex sessantottino.
Una sera grigia e uguale a tutte le altre, in preda all’alcol, Torben uccide la moglie perché non la riconosce più come compagna di lotte e di ideali, ma in lei vede la società sterile, piatta in cui vive.
Consapevole del gesto confessa e vuole essere punito.
Ma il sistema sociale non può accettare la libertà di ribellione anche nella confessione delle colpe individuali, non ammette la verità dannosa per il bene comune. Del resto se ciò avvenisse ne scaturirebbe il fallimento istituzionale. Così il sistema decide di non ritenerlo colpevole ma soltanto un disadattato sociale, un soggetto squilibrato da educare, incanalare nei giusti binari dei parametri governativi
E da qui inizia la terribile l’Odissea del protagonista -un processo kafkiano al contrario – che, privato di ogni forma di decisione, lotta per la libertà di espiare il suo senso di colpa e ricominciare a vivere.
In questo doloroso percorso di riconoscimento si scontrerà con un sistema manipolatore che ha come scopo una fantomatica felicità collettiva che frantuma ogni forma di individualismo e di dimensione etica.
Tutto è controllato dallo Stato, gabbia di conformismo, regno del consenso e dell’eufemismo: parole (abolizione di vocaboli violenti, espurgazione delle favole, rivisitazioni del linguaggio dell’arte) letture (soltanto romanzi sociali) programmi Tv (un esercito di tuttologhi, psicologi, sociologi, opinionisti) nascite e morti per garantire la felicità a tutti i costi “dalla culla alla tomba”
Ma sappiamo bene che la felicità non si può imporre con le catene seppure visibilmente celate. Non esiste una vita se non ci sono sfide, fantasia e immaginazione. Non esiste esistenza senza la libertà di pensiero, la volontà nella ricerca del bene e nel riconoscimento dell’altro, non si può parlare di umanità senza vivacità spirituale.
Una società di strisciante “fascismo” che impone il suo volere subdolo in nome di una felicità democratica, che è tutto tranne che felicità, crea soltanto burattini grigi in alveari cementizi: un “Uomo Nuovo” privo di fobie e tormenti, incubi e paranoie con un sorriso a 32 denti in un volto scarno in cui la manifestazione dei sentimenti viene controllata dagli interruttori sociali.
E in virtù di questo apparente benessere fisico globale (la luce mentale non serve) viene sacrificata la natura madre e madrigna, l’unica testimone della complessità divina.
Scrittura fluida e scorrevole, stile dinamico, linguaggio narrativo inquietante.
Finale eccezionale nel richiamo pirandelliano di “Uno, nessuno, centomila”.
Recensione di Patrizia Zara
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