MOBY DICK, di Hermann Melville
Ci vuole un bel po’ di risolutezza – come quella, ferrea e indistruttibile del capitano Ahab- per decidere da quale parte incominciare per raccontare “Moby Dick”, visti i possibili elementi di partenza, molteplici quasi come i tentacoli del calamaro gigante rosso che vi accoglie entrando nel “Whaling Museum” a New Bedford, Massachussets.
E’ da qui che l’autore, Hermann Melville. partì nel 1841 a bordo di una baleniera ed è da qui che Ismahel, l’io narrante del romanzo, parte a sua volta, dieci anni dopo, decidendo di imbarcarsi -non solo su una baleniera- ma anche in quella che si rivelerà l’avventura per mare più prodigiosa della sua vita. Un racconto coinvolgente, che malgrado le infiorettature mistiche, gli ammonimenti biblici, le riflessioni intimistiche, profuse a piene mani, ci trasportano sensorialmente su quelle rotte, srotolandoci davanti come fossero scene di un film in bianco e nero, visioni di bonaccia e di tempesta, di branchi di squali e di cetacei, di vita di mare e di concitate, violenti, estenuanti giornate di caccia alla balena.
Un po’ diario di bordo, un po’ racconto autobiografico, un po’ manuale di marineria, con termini tecnici e ragguagli su strumenti di navigazione, Moby Dick è un compendio indefinibile, di qui la difficoltà di abbracciarlo tutto, vasto come i mari che solca. L’autore ci accompagna passo passo nelle oscure locande portuali, descrive l’imbarco e la preparazione di una baleniera, le giornate a bordo, l’equipaggio e gli ufficiali, gli incontri e visite cordiali con altre navi, storie sentite e raccontate.
Il suo zoom implacabile,cattura ogni cosa, la superficie del mare, colori, luci ed ombre, come praterie acquose, pascoli marini. Con precisione didascalica, fornisce miriadi di informazioni sulla caccia vera e propria, sulle varie fasi, sulla lavorazione, sulle tipologia di cetacei, sulle loro caratteristiche fisiche e dimensioni, sulla precedente letteratura, su miti e leggende, su superstizioni, su arnesi da lavoro, mostrando competenze non solo nell’arte baleniera e marinara, ma anche in storia, geologia, frenologia e chi più ne ha più ne metta.
La passione e l’amore per la caccia alla balena, che allora era un’ attività che aveva dell’eccezionale e fortemente epica, trasuda ad ogni pagina, come il grasso di capodoglio trasuda spermaceti.
Melville-Ismahel si sforza senza risparmio di dimostrarci la nobiltà e il decoro di tale arte, il coraggio e la forza insita nei marinai, la sua grandiosità rispetto ad altre attività marinare, meritevole di rispetto e considerazione. Lode alla balena pertanto, non solo ai balenieri. Animale portentoso, ammaliante, potente, fuori scala , traboccante di mistero. La caccia in sé è concentrata alla fine, in poche pagine : dopo aver girato per anni, in tutti i mari del mondo, si conclude in soli 3 giorni e il numero tre ritorna, magicamente, in quest’opera che è tutta infarcita di segni, presagi, profezie, simboli, mistero.
Ahab feroce, inumano, implacabile, spietato, reso folle dall’amputazione di una gamba, ne è l’emblema più totale.
Vecchio marinaio, dalla fronte grinzosa come una mappa nautica, divorato da una necessità di vendetta, fa della caccia a Moby Dick, la Balena Bianca, il Leviatano, la sua unica – ed ultima – spinta vitale. Come un despota regna sulla ciurma atterrita, tiene a bada i suoi ufficiali, inscena teatralmente giuramenti e riti sacri, non ragiona mai lui. Lui sente, sente e basta.
Alla fine- quando realizza che è giunto alla resa dei conti, fine della sua folle storia- una sola lacrima verserà in mare, in un momento- commovente- di debolezza e fragilità, il ricordo di una vita spesa male e di una famiglia mai vissuta. Fino all’ultimo respiro marinaio, fino all’ultimo fiato in gola “Ammaina!”
Recensione di Anna Caramagno
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