NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE, di Erik Maria Remarque
Recensione 1
“Questo libro non vuol essere né un atto di accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale -anche se sfuggì alle granate- venne distrutta dalla guerra.” Se non è un atto di accusa questo, né una confessione, cos’altro può esserlo? Remarque la Grande Guerra l’aveva fatta, al Fronte occidentale ci era stato, sapeva perfettamente di cosa stava parlando. L’orrore di cui scrive, lui l’aveva sperimentato.
Remarque scrive con passione, le sue parole sono intrise di inchiostro e sangue e ricordi brucianti. Dalle poche pagine di questo libro orrore, miseria, tragedia si alzano in una nebbia bassa che ci avvolge completamente, noi piccoli lettori che stiamo sicuri e confortevoli nei nostri salotti. Noi, la guerra, facciamo fatica a immaginarla nonostante ci venga schiaffata davanti. È proprio uno schiaffo quello di Remarque, duro secco impietoso. No alla guerra, decisa da pochi (“Una cosa però vorrei sapere” dice Albert. “Se la guerra ci sarebbe stata ugualmente, nel caso in cui l’imperatore non l’avesse voluta”. “Ma certo” interrompo io. “Anzi, dicono che lui in principio non la voleva affatto.” “Beh, se non proprio lui, mettiamo, se venti, trenta persone nel mondo avessero detto di no”). No alla guerra, decisa su carta (“un ordine ha trasformato queste figure silenziose in nostri nemici; un altro ordine potrebbe trasformarli in amici. Intorno a qualche tavolo un foglio viene firmato da poche persone che nessuno di noi conosce, e per anni diventa il nostro massimo scopo ciò che in ogni altro caso provocherebbe il disprezzo di tutto il mondo.”)
No alla guerra, combattuta per il prestigio di qualcun altro (“ogni imperatore che si rispetti deve avere almeno una guerra, altrimenti non diventa famoso”), per accaparrarsi terre come se si trattasse di giocare a Risiko (“Discutono sui paesi che ci dobbiamo annettere. Il direttore di azienda, con il cinturino d’orologio in metallo, è quello che pretende di più: tutto il Belgio, i bacini carboniferi della Francia, vaste regioni della Russia. E dà motivazioni precise sulla necessità di possedere tutto questo ed è inflessibile”) anche se la giustificazione ufficiale é la difesa della Patria (“Noi siamo qui per difendere la patria, no? Ma i francesi stanno di là, anche loro per difendere la patria. Chi ha ragione?”). Patria, da non confondere con Stato, perché “patria e Stato sono davvero due cose diverse”.
No alla guerra, di cui si straparla in osteria davanti ad una birra e fumando un buon sigaro (“Ma lui ribatte con aria superiore, e mi dimostra che io non ne capisco nulla. “Naturale, così pare al singolo individuo” dice “ma tutto dipende dall’insieme. E l’insieme voi non lo potete giudicare: voi vedete solo il vostro piccolo settore. Fate il vostro dovere e rischiate ogni giorno la vita, e questo vi fa grande onore -ciascuno di voi dovrebbe avere la croce di ferro -ma l’importante è che il fronte nemico sia spezzato nelle Fiandre e poi respinto indietro, procedendo da Nord a Sud”.) No alla guerra, che uccide anche i sopravvissuti (“ma se scampo, compagno, voglio combattere contro ciò che ci ha rovinati entrambi, che a te ha tolto la vita… e a me? La vita anche a me”.
No alla guerra, lo urla in tutti i modi Remarque, in un urlo che gela e paralizza. E se questo urlo non lo sentiamo, è perché siamo sordi. La guerra di Remarque ci esplode dentro, e se ci preserva in vita ci lascia comunque una massa di schegge vaganti, che chissà dove andranno a infilarsi. “Non è un atto di accusa né una confessione”, dice Remarque. Forse, nonostante tutto, è vero. Remarque descrive e racconta, e ci lascia liberi di accusare.
Recensione di Benedetta Iussig
Recensione 2
È un libro che, sotto forma di diario, mostra tutto l’orrore e l’inutilità delle guerre in genere e della Prima Guerra Mondiale di cui tratta.
Alcuni ragazzi di un liceo, convinti dai discorsi di un professore, si arruolano come volontari nel 1914 in Germania allo scoppio della guerra.
Il romanzo è sotto forma di diario; la voce narrante è quella di Paul Baumer, uno degli studenti.
Percorriamo con loro tutti gli anni del conflitto e ne vediamo gli orrori attraverso gli occhi dei ragazzi.
Moriranno tutti, tranne uno che non era un loro compagno di scuola, Tjaden, di cui l’autore scriverà nel romanzo “La via del ritorno”.
Una delle pagine più sofferte, che in genere si trova nelle antologie scolastiche, è quella in cui il protagonista si scontra in una trincea con un soldato francese.
Per difendersi lo pugnala a morte e trascorre la notte con il coetaneo tra le braccia a sentire i suoi rantoli, la sua agonia, ad assistere alla sua morte.
Cerca nelle divisa dell’altro e scopre che è un tipografo francese e gli parla, vorrebbe fargli coraggio, soccorrerlo.
Si ripromette di andare in Francia e parlare con la famiglia dell’altro, spiegare cosa sia accaduto.
Tra storie quotidiane, battaglie, morti e speranza si arriva quasi all’armistizio.
Nell’ultima pagina si legge:”…egli cadde nell’ottobre 1918, in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole – Niente di nuovo sul fronte occidentale-“.
È uno dei più potenti libri contro la guerra.
Era molto amato da tutti gli alunni ai quali ne ho proposto la lettura.
Venne pubblicato nel 1928 e in Italia il fascismo vietò che uscisse.
Il suo autore ottenne il premio Nobel.
Recensione di Eva Gambardella
NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE Erik Maria Remarque
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