Omaggio a Luciano De Crescenzo
Raramente mi accade di provare sentimenti profondi nei confronti di uno scrittore.
A Luciano De Crescenzo volevo bene, come se fosse stato un caro zio; uno di quelli che lui sa come va il mondo, quello zio che c’è per te quando hai bisogno di lui.
Forse perché negli anni del liceo, quando con adolescenziale noncuranza cercavo sempre il metodo migliore per studiare meno e superare anche solo di un pelo la sufficienza, attraverso i suoi scritti mi ha dato tanti suggerimenti sulla storia della filosofia, materia ostica e vasta insegnata alla Sezione D del “Diaz” di Caserta da una prof appassionata, competente e bravissima ma purtroppo poco sensibile alla leggerezza esistenziale di noi giovinastri dell’epoca.
Però per fortuna lui sapeva. Zio Luciano, che teen-ager lo è sempre rimasto nell’anima, sapeva bene quali fossero le nostre preoccupazioni maggiori e quale il metodo per piantare concetti profondi, come chiodi dentro alle nostre teste dure come il legno ma leggere come sughero.
Eraclito: l’oscuro. Talete: quello dell’ acqua. Platone: quello delle idee. Non devo nemmeno concentrarmi, al solo nominare i maggiori filosofi greci, ad esempio, mi viene subito in mente una parola; dalla quale sia poi possibile far scaturire un’idea, alla quale agganciare un concetto e da lì un discorso. Roba che Ernesto Bignami da lassù deve avergli rivolto un celestiale applauso.
Era un genio, zio Luciano? Non lo so, certo era uno che non si era dimenticato com’è essere ragazzi. Ma mica solo per la filosofia, eh. I suoi testi divulgativi si affiancano a pregevoli romanzi, alcuni anche grandi successi internazionali, in cui sono perennemente presenti stati d’animo che qualunque adolescente di qualsiasi epoca può immediatamente riconoscere come propri: l’amore disincantato per il proprio luogo d’origine, l’insofferenza verso le regole e le imposizioni, la nostalgia per la fine di qualcosa di bello, nel mio caso erano sempre le vacanze, la malinconia per ciò che avrebbe potuto essere, l’ammirazione mista a timore reverenziale per la bellezza muliebre. Sentimenti che riesce a tirar fuori anche al più austero dei filosofi, umanizzandolo con ironia e pacatezza, fino a renderlo simpatico finanche a un insofferente virgulto quale sono stato più di trent’anni fa.
E non ho quindi remore a rendergli omaggio oggi, con il cuore gonfio di tristezza, tributandogli un aggettivo che lo avrebbe fatto inorridire: un gigante.
Ciao Ingegnere.
Di Salvatore Gagliarde
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