Parcheggia le adidas in giardino – Quinta Puntata – Corrado Occhipinti Confalonieri

Parcheggia le adidas in giardino quinta puntata

Parcheggia le adidas in giardino

di Corrado Occhipinti Confalonieri

Racconto in otto puntate per iL Passaparola dei libri

Disegno di copertina: Roberto Ragione

a Ida Boni

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Quinta puntata

10.

Un pomeriggio Giovanni, il batterista con i tic, mi aveva invitato a casa sua per farmi sentire come suonava.

Suo padre aveva insonorizzato per lui la sala al primo piano della sua fabbrica, contigua all’abitazione. Le pareti erano rivestite con piastrelle di sughero e gli infissi erano stati sigillati. Al centro troneggiava una luccicante batteria, come un ufo pronto a decollare.

Giovanni si era seduto con calma sullo sgabello e osservava concentrato i tamburi. Preso poi un paio di bacchette e cominciò a rollare, in un crescendo che ci portò in breve tempo in un’altra dimensione, tanto quel ritmo ossessivo era trascinante. La forza con cui provocava la musica era di un’ intensità tale da far vibrare il pavimento come il terremoto.

Dopo una ventina di minuti ininterrotti, mi chiese ansioso cosa ne pensassi: non potrei fare a meno di manifestargli il mio entusiasmo con un applauso.

 

 

«Sei stato bravissimo!»

«Dai Dario, non esagerare,» si schernì «se no mi monto la testa».

Eppure, mi aveva dato veramente qualcosa: l’opportunità di un breve viaggio nel suo mondo.

Fino a quel giorno, avevo sempre ascoltato musica per radio, o al massimo consumato qualche 45 giri.

Non mi ero mai reso conto che suonare potesse rappresentare una passione, forse perché sentivo ancora la puzza di sigaro del mio maestro di pianoforte.

A 10 anni avevo sperimentato con scarso successo vari sport e mia madre aveva deciso di provare con l’arte. Mi mandava da questo insegnante che in un’ora riuscivo ad ascoltare 5 o 6 allievi. Se non diceva: «Questo me lo rifai» scarabocchiava con la penna biro il pezzo di spartito da preparare per la volta successiva.

Aveva resistito un anno, anche troppo, e miei non fecero storie al mio rifiuto di continuare.

Ma dopo aver ascoltato Giovanni, ogni tanto mettevo qualche disco di musica rock sul piatto dello stereo. Ascoltavo con più interesse gli assoli di chitarra e batteria o le magiche interpretazione di Janis Joplin. Ma sentirla dal vivo – se fosse stata ancora viva –  doveva essere tutta un’altra cosa.

 

 

11.

Non studiavo mai con Nicolò. Lui non me l’aveva chiesto e così mi era mancato il coraggio di farmi avanti io.

Tuttavia, già dal primo compito in classe di matematica, formavamo una squadra affiatata: lui impostava i problemi e io risolvevo i calcoli.

Quando la prof ci riconsegnò i compiti eravamo euforici, non tanto per il voto, quanto per aver condiviso lo sforzo.

«Domenica verresti allo stadio con me?» mi aveva chiesto all’improvviso.

«Certo!» avevo risposto entusiasta.

Non ero assolutamente tifoso, eppure mi interessava un’esperienza di questo tipo perché vedevo come Nicolò era distrutto a lunedì mattina se la sua squadra perdeva o allegro se vinceva.

Come poteva una partita di calcio influenzare così tanto? E poi che tipi erano i suoi amici, quelli con cui era andato a Rimini? Tutte queste domande giravano nel mio cervello che dava risposte contraddittorie aumentando quindi la mia curiosità.

A Nicolò piaceva osservare il lento riempirsi dello stadio e per questo la domenica eravamo in anticipo di circa due ore.

In effetti all’inizio il flusso sembrava molto lento, quasi impercettibile se si continuava a guardare, fino a diventare rapidissimo se si distoglieva per qualche minuto lo sguardo, soprattutto mezz’ora prima dell’inizio della partita.

Non riuscivo a credere che quelle capocchi rosa fossero delle persone come me.

Mio padre circa cinque anni prima mi aveva portato a vedere Milan-Inter, ma non ricordavo di aver provato questo senso di nullità di fronte a una marea di persone così. Riferii queste mie sensazioni a Nicolò e mi disse che anche lui provava la stessa cosa anche se allo stadio c’era già venuto centinaia di volte.

 

 

Mi aveva presentato i suoi amici che appartenevano alla varia umanità. Due poi mi sembravano agli antipodi: Lorenzo un tipo fricchettone in giacca e cravatta con i capelli tirati indietro col gel e un altro ragazzo di cui non ricordo il nome, piuttosto massiccio che portava un chiodo nero e un paio di jeans sdruciti.

Nicolò mi aveva poi presentato Cristina, la sorella di Lorenzo, che era il ritratto del fratello anche se il naso era molto più sottile e le guance meno scarne.

Cristina si lamentava di non aver ricevuto i pompon di carta da sventolare. Si guardava intorno con aria annoiata. Mi dava l’idea di essere venuta perché non sapeva cosa altro fare. Non partecipava al coro e non sottolineava con un «Alé» i nomi dei giocatori annunciati dallo speaker.

Noi eravamo in un punto caldo dello stadio, perché quando la partita ebbe inizio, tutti quanti cominciarono a saltare in modo coordinato urlando a squarciagola. A quel punto capii che dovevo fare lo stesso per non sentirmi tifoso dell’altra squadra,  anche se non mi davo completamente al tifo cercando di mantenere un minimo di compostezza, mentre non riconoscevo più Nicolò che mi sembrava parte del tutto insieme a Lorenzo e quello in jeans. Cristina invece stava tranquilla. Finita la partita, nessuno aveva più voce. Tutti si accalcavano alle uscite, noi invece stavamo ancora sugli spalti.

Come all’inizio, in poco tempo lo stadio fu deserto ma questa volta il vento faceva rotolare una quantità notevole di rifiuti sul campo in un atmosfera da The day after.

Nicolò mi sembrava affascinato da questo spettacolo. Aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite ed era paonazzo in viso, stravolto ma felice perché avevano vinto.

Adesso lui e i suoi amici si scambiavano le prime impressioni, differenziata in modo cauto fra di loro. Ognuno dava un giudizio sui giocatori, lasciando aperta la possibilità di un commento aggiuntivo all’altro che poteva essere un rinforzo della teoria precedentemente espressa o una debole disgressione. Forse perché ero di parte, ma mi sembrava che fosse Nicolò a mantenere alto il tono della discussione.

Fine della Quinta Puntata

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Profilo biografico dell’autore

 

Corrado Occhipinti Confalonieri

 

Corrado Occhipinti Confalonieri è nato a Milano nel 1965. Laureato in Scienze politiche, è storico e autore. Ricordiamo un saggio sul Circolo dei nobili fra ancien régime e liberalismo (Il Risorgimento, 1992, 1) e di uno  sul progetto di Unione franco britannica del giugno 1940 (Rivista di studi politici internazionali, 2018, 4). Nel 2019 ha pubblicato uno studio sull’azione di Jean Monnet nella Prima guerra mondiale (Rivista di studi politici internazionali 2019, 4) e la ricostruzione della Cronaca della peste del 1348 scritta da Gabriele Mussi (Bollettino storico piacentino 2019, 2). Finalista del concorso letterario. Un giorno di Joyce indetto dal “Corriere della Sera”, collabora con i mensili MedioevoStorica National Geographic e col settimanale Maria con te. Si occupa anche di divulgazione storica e novità librarie sui social (Instagram e Facebook) dove riscuote  un ampio seguito. Nel romanzo storico  La moglie del santo  (Edizioni Minerva) narra la vita di due suoi avi vissuti nella prima metà del 1300:  Corrado Confalonieri – santo patrono di Noto e di Calendasco – e sua moglie Eufrosina Vistarini. Le agiografie ufficiali citano solo di sfuggita Eufrosina: scopo dell’opera è quello di ridare voce a una donna coraggiosa, a lungo dimenticata, nel contesto politico, sociale e religioso dell’Italia del XIV secolo.   Per il suo romanzo , ha vinto il Premio speciale Italia Medievale 2019 e quello per la miglior copertina dal gruppo Facebook Thriller storici e dintorni.

 

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