Premio Bancarella 2010: OLIVE KITTERIDGE, di Elisabeth Strout
In un romanzo fatto di racconti narrati da voci diverse, si dipana davanti ai nostri occhi la vita di una piccola città del Maine, in cui non succede nulla di straordinario, eppure la vita si presenta in tutte le sue forme.
Elemento unificante di tutte le storie è Olive Kitteridge, un’insegnante in pensione, un donnone con un piede 41 e la capacità di guardare la realtà con occhio cinico e, a volte, spietato. Alcuni racconti la vedono protagonista, in altri appare un attimo o è presente solo in un ricordo, ma alla fine la sua figura appare completa e ci appare più simpatica. In apparenza Olive è scorbutica, dispotica, incapace di relazionarsi col marito e il figlio, che pure ama follemente, ma il suo amore è spesso frainteso e considerato una forma di controllo. Sarà per questo che il figlio si trasferirà lontano e solo dopo molti anni, e grazie all’aiuto di un terapista, riuscirà a superare le sue inquietudini.
Contraltare di Olive è il marito, uomo mite e profondamente positivo, aperto al mondo e agli uomini tanto quanto lei, invece, è apparentemente chiusa. Insieme sono completi e la rottura dell’equilibrio li segnerà profondamente entrambi. La morte è sempre presente, ma mai vincente, nonostante tutto, perché la vita è sempre più forte e anche le vicende più dolorose entrano a far parte del ciclo ineluttabile dell’esistenza, e vengono accettate come “normali” e non straordinarie. Perché Olive è una donna forte, che anche negli inverni più cupi pianta tulipani e crede fortemente che non bisogna avere paura mai, neanche della propria fame, altrimenti si rimane sciocchi.
Confesso che questo romanzo mi ha colpito. Mi sono ritrovata in molti difetti di Olive, ma anche nella sua sostanziale positività (che non deve essere confusa con la rassegnazione). Grazie alla Strout ho camminato con Olive ripercorrendo ogni giorno la stessa strada, ho sofferto con lei la lontananza del figlio (“Immagino che sia così che va il mondo. Però fa male avere il proprio DNA disperso al vento come un dente di leone”), ho piantato con lei fiori e ho guardato con attenzione il mondo, ma soprattutto ho ricordato con lei che “l’amore non va respinto con noncuranza, come un pasticcino posato assieme ad altri su un piatto passato in giro per l’ennesima volta”, perché dobbiamo ricordarci ”quello che tutti dovrebbero sapere: che sprechiamo inconsciamente un giorno dopo l’altro”.
E forse l’immagine più strana, ma più perfetta dell’incontro fra due persone è quella delle due fette di formaggio svizzero premute insieme, che mettono in comune non soltanto la loro pienezza, ma soprattutto i loro buchi, “i pezzi che la vita ti levava di dosso”
1 Trackback / Pingback