Premio Campiello 1981: DICERIA DELL’UNTORE, di Gesualdo Bufalino
Gesualdo Bufalino è nato a Comiso, in Sicilia, nel 1920; è stato un poeta, scrittore, aforista, critico letterario e d’arte.
Durante la seconda guerra mondiale si ammala di tubercolosi e viene ricoverato in un piccolo ospedale di Reggio Emilia. La tubercolosi lo colloca in una dimensione esistenziale che è quella di una sorta di “bilico tra la vita e la morte”, sintagma che traduce l’incertezza della sua condizione esistenziale, che segna la sua vita e che diventerà ricorrente nella sua scrittura.
Inizia la prima stesura di “Diceria dell’untore” negli anni della sua malattia, ma il romanzo non viene pubblicato subito. Lui stesso disse che le ragioni del ritardo della pubblicazioni erano umiltà, superbia, paura, incontentabilità, una forma di ammutinamento contro la vita, si considerava sulla Terra una specie di prigioniero politico e si rifiutava di parlare, il suo era come un diario ininterrotto che scriveva solo per se stesso e che avrebbe dovuto concludersi con una pubblicazione postuma.
Bufalino diceva infatti che la scrittura gli serviva come medicina, come luogo di confessione, come possibilità di dialogo e di approfondimento con sé stesso. “Si scrive per guarire se stessi, per sfogarsi, per lavarsi il cuore, per dialogare anche con uno sconosciuto lettore”.
Dunque, dopo avere scritto il romanzo, lo corregge e ne cambia la struttura, lo riscrive continuamente modificandolo e arricchendolo e lo tiene da parte per quasi trent’anni: le tante stesure, testimoniate e regalate in un importantissimo archivio di testi manoscritti del ‘900 a Pavia, dimostrano anche una sorta di insoddisfazione personale, di ricerca della perfezione stilistica e anche di un’idea leggermente nevrotica di non potersi mai separare dal suo scritto.
Finalmente, nel 1981, “Diceria dell’untore” verrà pubblicato da Sellerio per iniziativa di Leonardo Sciascia il quale, leggendo l’introduzione curata da Bufalino al volume fotografico “Comiso ieri”, intravide tra le righe le superbe qualità di un possibile scrittore inedito. “Diceria dell’untore” divenne un caso letterario estremamente interessante, vinse il Premio Campiello e venne apprezzato per l’eleganza della sua scrittura. A 61 anni Bufalino diventò così famoso.
Il romanzo è ambientato in un sanatorio di Palermo negli anni dell’immediato dopoguerra. La trama prende spunto dall’esperienza della malattia vissuta dall’autore nel sanatorio di Reggio Emilia, ma è un’esperienza molto trasformata dalla sua fantasia. È la storia di una giovinezza perduta, di una difficile iniziazione alla vita segnata dal dolore, dalla coscienza infelice dovuta sia al momento storico sia alla malattia. Bufalino ha sempre avuto l’impressione che la guerra e la malattia gli avessero rubato la giovinezza, costringendolo a vivere con l’incubo di morire da giovane. E questo è ciò che prova l’io narrante del romanzo, così come tutti gli altri personaggi, tutti “condannati a morte” dalla tubercolosi.
Il protagonista si innamora di Marta, anche lei malata e ricoverata alla Rocca, i due vivranno una storia d’amore difficile e controversa. La scena della morte di lei, con sbocco di sangue, è molto melodrammatica, una “morte in musica” che ci rimanda alla “Traviata” di Giuseppe Verdi. La parola di Bufalino ha uno spessore letterario molto alto, è una parola ricercata, assaporata anche nella sua musicalità (poesia e prosa si fondono e producono musica). Tutti i romanzi di Bufalino sono pieni di citazioni e di rimandi intertestuali.
In questo romanzo è molto importante la dimensione metaforica del teatro. Bufalino disse “il sanatorio non è solo carcere, clausura monastica, rocca assediata: è, soprattutto, luogo d’incantesimo”. Luogo d’incantesimo, dunque teatro. D’altronde il libro comincia con un sogno.
Il romanzo non affronta solo il tema della malattia e della pietà umana, ma anche quello spirituale e religioso, e il tema della memoria.
La malattia che incute paura, panico e terrore nei vari personaggi. Malattia che diventa “stigma-stemma”, cioè segno di un’infamia, di una degradazione, e come stemma, cioè come corona, medaglia, privilegio che permette di dire e di capire ciò che i sani non dicono e non capiscono. Questo è un elemento che rende il romanzo affascinante, complesso e ricco di tanti spunti, non solo letterari ma anche umani.
Il tema spirituale e religioso è sviluppato attraverso l’amicizia con Padre Vittorio e, in modo diverso, con il Gran Magro, il primario del sanatorio. Grazie alla figura del prete emerge la dimensione più filosofico-riflessiva della religiosità, perché Padre Vittorio vive la sua fede da religioso ma con travagli spirituali, ci sono momenti in cui la sua fede vacilla; invece, grazie alla figura del Gran Magro emerge una sorta di lotta dell’individuo con Dio. Bufalino, con questi due personaggi, ha voluto rappresentare due aspetti difficili e problematici della religiosità che lui stesso ha vissuto in prima persona per tutta la vita. Egli infatti definiva la sua fede come un “cristianesimo ateo e tremante”.
La memoria è vista come serbatoio e possibilità di recupero, come unica arma che ci può aiutare nel tentativo di resuscitare il passato. Solo la memoria conserva la possibilità del bis, del rivivere; ognuno di noi vive in quanto ricorda. E la scrittura non è nient’altro che memoria, anche quando è invenzione. L’influsso proustiano è evidente: per rivivere bisogna scrivere. La memoria è lo strumento della sopravvivenza di sé.
Ciò che rende questo romanzo davvero unico e straordinario è lo stile ricco e pieno di metafore e altre figure retoriche, le più frequenti sono gli ossimori, le metafore, le paronomasie e le allitterazioni. Il lessico è particolarmente ricercato ed elegante. Molto particolare è anche la costruzione sintattica, i periodi sono molto lunghi, complessi e ricchi di subordinate, la lettura risulta più lenta, ma aumenta sicuramente il fascino del romanzo.
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