PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 1957: Albert Camus

PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 1957: Albert Camus – “per la sua importante produzione letteraria, che con perspicace zelo getta luce sui problemi della coscienza umana nel nostro tempo”

 

LO STRANIERO, di Albert Camus (Bompiani)

Lo straniero Albert Camus

Raccontato in prima persona con l’uso di frasi brevi, senza tanti giri di parole e senza aggettivi e avverbi inutili e sovrabbondanti.

L’incipit” Oggi è morta mamma. O forse ieri, non so.” ti da già un senso di estraneamento, che intuisci dal titolo del libro, ma che vedi crescere pagina dopo pagina.

Meursault, un impiegato che vive ad Algeri, è il protagonista e vive la sua vita come se non lo riguardasse, tutto ciò che gli accade, come la morte della madre, accade e basta ” prima o poi doveva capitare” . Poi tutto continua come se nulla fosse.

Gli capita anche di avere una relazione con Marie, ma non sa se la ama o se la vuole sposare, la desidera solo ma il resto Meursault non lo sa.

Viene, infine, coinvolto in un litigio e senza un vero motivo uccide un arabo. Perché? Non lo sa, sa solo che lo ha ucciso. Cosi aspetta con calma le conseguenze della sua azione. Al processo si comporta come spettatore, seduto al banco dell’imputato, è ” interessato a sentir parlare di sé “. Estraneo a sé stesso, estraneo alle persone che lo circondano, estraneo alla sua stessa vita.

Lui ascolta, interviene poche volte, non mostra disperazione né pentimento, la vita gli accade come qualcosa di inevitabile.

La storia di un uomo che non si riesce ad amare, apatico, freddo, insensibile; un uomo che non sorride, che non ha capacità di piangere per la morte della madre né di gioire per l’amore di Marie.

Un uomo con cui anche il lettore si sente estraneo.

Il libro, che ha reso celebre l’autore, si pone diversi interrogativi: sull’assurdità di vivere e sul valore della giustizia. Buona lettura a tutti

Recensione di Maria Mazzara

 

LA PESTE, di Albert Camus (Bompiani)

 

La peste A. Camus

 

Erano gli anni intorno al 1940, quando nel mese di aprile il sottosuolo della città di Orano, sulla costa algerina di una prefettura francese, vomitava fuori dalle sue fondamenta colonie di topi che si vorticavano nelle strade, sotto i marciapiedi e nelle case, in preda alle convulsioni schiumanti dei loro luridi corpi invasi dal male e dai musi sanguinolenti, tra rivoli di sangue putrescente.

Era il male efferato che quella città grigia, polverosa e bruciata dal sole, sputava fuori dal suo ventre come il pus che si riversa dalle sue ascessi infette.

Tra gli odori dei fiori, che arrivavano da chi sa quale terra e la puzza di quel male che si spandeva per la città, si svolgeva la vita commerciale di ogni giorno, di quel luogo e di quella gente che non immaginava nemmeno lontanamente a cosa andava incontro.

Tra i cumuli di immondizia e negli edifici abbandonati, tra le strade e nelle case, i topi accumulavano la loro morte invasa da chi sa quale ospite virulento.

Ma la morte non è mai sazia e dopo i topi sicuramente brama ad un boccone più prezioso, come quella che può essere la vita di un uomo.

Lentamente e del tutto invisibile quel male si insinua negli uomini, nei loro corpi, ma soprattutto nelle loro anime, coltivando e mostrando i sintomi di un male che agisce senza farsi vedere, ma che si manifesta sui loro corpi straziandoli dal dolore, in preda ad una febbre che pian piano conduce sulla via della morte, per arrivare nel regno degli inferi.

Quel regno in cui nemmeno Orfeo dopo aver perso la sua amata Euridice non riesce a trovare pace, allontanato dalla sua amata strappata alla vita dal morso infame di una creatura a cui la natura stessa ha donato la vita.

È la Peste…

La Peste che miete vite e non fa distinzione se questi sono adulti o bambini, non guarda negli occhi di nessuno e nemmeno negli occhi di chi punta il dito verso quell’imputato a cui si infligge la sua condanna, non sapendo che allo stesso modo lui stesso, a sua volta, sta commettendo un delitto.

Ma dove la giustizia diventa alleata di quel flagello, che condanna gli esseri alla sofferenza e dove anche le vittime a volte si rivelano carnefici di un male assurdo, manifestando una contraddizione che non vede speranze, se non cercando la pace in quegli uomini che l’hanno sempre inseguita.

Questi sono gli uomini che vivono per ciò che amano, sono i medici come il dottor Bernard Rieux che incessantemente lo si vede in questo romanzo combattere la peste fianco a fianco di uomini che rincorrono quella condizione, lottando con ogni forza contro la morte, senza alzare gli occhi al cielo dove vi risiede un Dio chiuso nel suo silenzio, ma lavorando con uomini come Jean Tarrou, figlio di un pubblico ministero francese che annota tutto l’evolversi dell’epidemia sul suo taccuino e che organizza gruppi di volontari per stare vicino ai malati che soffrono quel male, abbandonando la sua stessa vita a quel male ignobile.

Le mura si chiudono come una trappola che trattiene quel male funesto , ma insieme a lui si trattiene anche chi è separato dai suoi affetti, da un amore, dai suoi cari e dalla sua terra che lo vede straniero in una patria altrui.

Ma come spesso gli uomini di fede sono portati a pensare, la peste e la presenza del male non sono altro che il castigo divino, il flagello, la penitenza che richiede la purificazione dai peccati dell’uomo, una misura estrema inflitta da chi sa quale Dio.

… Quale il senso di questa punizione?

…Quale il mistero irrisolto?

L’oscurità di questa punizione, trova spiegazione solo in quello che vede diffondere il vero senso di questo male, che risiede nell’umanità degli uomini e nella loro forza nel combattere questa sofferenza, restando accanto ai malati, combattere la malattia e a non fuggire, trovando ogni cura per sconfiggerla e avendo considerazione degli infermi.

Uomini che credono solo nell’umiltà dell’essere umano e nel loro senso di solidarietà, nella comprensione, nell’indulgenza verso gli altri uomini. Perché il desiderio dell’uomo non è possedere la propria umanità, bensì preoccuparsi di realizzarla interamente.

Un abilità che si deve riconoscere allo scrittore che con un prosa ricercata, delicata e fine, tratta argomenti che richiedono una delicatezza profonda, nel rispetto di quelle vite e del lettore stesso.

Un linguaggio che a tratti non svela il dolore di un flagello, che annienta i ricordi e le menti, gettando tutti in una solitudine comune, legata ad una profonda disperazione, imprimendo a questa opera una veste che porta una maschera e che nasconde quella metafora di un male che affligge ogni uomo.

La Peste è il male che le culture totalitarie antidemocratiche, infliggono agli uomini, il nazismo, la persecuzione degli ebrei, l’annientamento delle proprie idee, l’opposizione al pensiero democratico che serve a combattere quel castigo, tormento che incombe sulla testa di ogni uomo.

La Peste è la solitudine, è l’egoismo, è una mancanza, è il disorientamento e l’indifferenza, è la vita che non concede illusioni, la peste è una condanna, è l’assurdità dell’esistenza degli uomini in un mondo che non da scampo.

Ma la peste è una piaga che si può sconfiggere, lasciandola abbandonata e dimenticata in un cassetto, ciò nonostante non la si estirpa del tutto; quando meno ce lo aspettiamo essa risale dalle cantine, dai tombini e dalle menti di quegli uomini malvagi, riportando alla luce tutta la sua atrocità, riacquistando nuovamente la sua spietatezza, perché la peste è pur sempre la vita, quella vita che ognuno di noi è costretto a vivere.

Buona lettura

Recensione di Giuseppe Carucci

PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 1955: Halldòr Laxness

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