PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 1989 Josè Cela

PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 1989: Josè Cela – “per una prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell’uomo”.

PADIGLIONE DI RIPOSO, di Josè Cela (Utopia – aprile 2024)

“Padiglione di riposo” di Camilo Josè Cela, traduzione di Antonio Bertolotti.

Qualcuno di voi ricorda quando alla scuola materna le maestre ci facevano realizzare gli alberi nelle stagionalità? Quando per farci comprendere e percepire lo scorre del tempo appendevano ai vetri delle finestre o in aula un grande albero con grandi rami e, a seconda delle stagioni, ci appoggiavano sopra foglie autunnali, fiorellini di ciliegio rosa, bambagia come neve, chiome verdi di carta crespa?

Autunno, inverno, primavera, estate era il tempo che trascorreva nei nostri giorni di bambini, collegato al cambiamento della natura attorno a noi.

Leggendo questo libro ho ricordato quei momenti, perché in non molte pagine, ma pregne di significato, l’autore ne ha trasmesso un vivissimo valore, del tempo appunto, del significato che donne e uomini protagonisti del racconto ne danno. Un qualcosa a cui aggrapparsi per non sentirsi morire all’istante, annientati da una malattia che non lascia scampo.

Un libro particolare, come tante poesie d’amore nell quali ritrovare briciole di vite che danzano in uno spazio siderale, sospese in un tempo che sembra essere il non-tempo.

L’autore mi ha lasciato spesso disorientata, ma in senso positivo (se il disorientamento può dirsi positivo in questo caso) davanti a parole e riflessioni frammentarie, raccontate nella loro disorganicità, apparentemente confuse.

Solo una storia sembra in qualche modo tenere i fili di altre microstorie, racchiuse dentro un luogo ben specifico: il padiglione di un sanatorio. Dove si trovi non si sa e nemmeno in quale periodo storico. Quello che si sa con certezza invece e che ho percepito chiaramente è quanto possa essere vertiginoso e ricco di delicatezza la penna dell’autore, raffinata, umana nel raccontare della malattia, del dolore, della rassegnazione dei pazienti affetti da tubercolosi.

Ciò che accade in questo luogo di riposo è colmo di umanità, di una gentile pazienza, fra le stanze numerate, fra le persone che le abitano temporaneamente e di cui non si conosce il nome.

In realtà non è poi così importante saperlo; ciò che conta veramente nella narrazione è il febbrile day-by-day, il giorno che rincorre un altro suo giorno e della sua pregnante intensità. Uomini e donne seduti nelle loro chaise longue ad osservare dalle vetrate il trascorre delle stagioni, dal lugubre inverno che intristisce i loro pensieri, alla speranzosa primavera e all’eccitante estate che accolgono con dolente amarezza ricordando che anche i loro corpi un tempo erano estate, belli e in salute, scevri dalla malattia.

Ora vivono come su quelle nuvole di cotone che un tempo la mia maestra creava ad arte, sospeso nel tempo e nello spazio, muto, rarefatto.

Marinai, giovani spose, imprenditori, medici, poeti, varia umanità legato indissolubilmente dal desiderio, nonostante tutto, viscerale di vivere. Ed è paradossalmente dalla loro immobilità che si instilla il cocente desiderio di poter vivere, ancora un attimo, un millesimo di secondo, un giorno ancora, un altro giorno ancora. Si aggrappano con tutte le loro ormai deboli forze ad ogni granello di esistenza. Ed è qui che l’autore introduce un elemento essenziale alla vita ed è la natura, osservatrice muta del dolore che si fa empatica e lenisce la bruciante angoscia.

Lo scrittore ripropone con regolarità nel racconto il canto degli uccelli, il vento che soffia tra gli alberi, lo scrivere del ruscello lì vicino. Una natura che danza e che i pazienti ascoltano come musica miracolosa.

Ed è anche così che si racconta della malattia, e le parole scritte dei protagonisti diventano amplificatori del mondo interiore, permette di destarsi dall’imminente e nasce un certo spirito solidaristico in cui si accenna con brevi dialoghi tra loro, come carezze e rendendosi presenza l’uno all’altro.

Una umanità allontanata dagli affetti, delle loro case, dai loro luoghi natii a causa del loro essere malati.

Ma proprio qui, lontani, soli, cercano di cogliere fino in fondo un attimo di vita, prima che il sole tramonti di nuovo, per coglierne tutta l’immensità.

Citazione preferita:” La mia vita che sta terminando non lascerà nessuna traccia; sarà come quella brezza soave che soffia al calare della sera e che poi nessuno ricorda più, o come quell’acqua tiepida delle pioggia d’agosto che ci danno tanto piacere e che tanto in fretta gettiamo nel profondo pozzo dell’oblio.

Non lascerò nessuna traccia, nessuna impronta, eppure, allora, quand’ero bambinone sognatore, quando parlavo con la violetta profumata e con la rondine che passava, quando la ieratica camelia mi sorrideva e il cardellino del grande ciliegio cantava per me, ero convinto, pienamente convinto, che l’avvenire mi rispettasse grandi imprese”.

Durante la lettura ho immaginato un mandala, quella sua forma rotonda che, oltre ad essere un complesso disegno, è anche un luogo finalizzato a riflettere, a meditare mentre tutto scorre. Che definisce il qui ed ora, come le donne e gli uomini di quel sanatorio, concentrati ad assaporare il qui ed ora del loro vivere.

Recensione di Elisabetta Baldini

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