PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2004: Elfriede Jelinek – “per il flusso melodico di voci e controvoci in romanzi e testi teatrali, che con estremo gusto linguistico rivelano l’assurdità dei cliché sociali e il loro potere”
LA PIANISTA, di Elfriede Jelinek (Einaudi)
Correre la maratona di New York senza aver fatto allenamento: La pianista, romanzo della premio nobel austriaca Elfriede Jelinek.
L’opera tratta del rapporto malato tra madre e figlia, Erika, che è, appunto, la pianista del titolo, una donna adulta non ancora autonoma. Un romanzo asfissiante, sia per la prosa che per la trama. Lo stile della Jelinek è denso, ricco di metafore e similitudini, privo di dialoghi costruiti col discorso diretto, solo qualche scambio utilizzando per lo più il discorso indiretto.
Mentre lo leggo sono in apnea: la madre esigente che annienta completamente la personalità della figlia, una donna che riversa aspettative immense sulla figlia che, però, le tradisce e merita di essere punita con umiliazioni continue e sferzate all’autostima.
“Perché mai Erika dovrebbe realizzare i sogni della madre se non riesce a concretare neanche i propri? Non osa neppure pensarli fino in fondo, li fissa solo dal basso in alto con sguardo ebete.”
Così questa figlia cresce e vive senza vivere, incapace di percepire sé e il proprio corpo, il tutto descritto con una prosa martellante e con abili giochi di parole.
“Erika si controlla al punto da non sentire più alcuna pulsione. Immobilizza il proprio corpo, visto che nessuno ci si lancia sopra con un salto da pantera per tirarlo a sé.”
Erika deve sfogare la sua frustrazione in qualche modo, e lo fa seguendo la strada del sesso, che, in questo libro non è mai positivo, mai appagante.
La quasi-quarantenne insegnante Erika sembra iniziare a sciogliersi tra le mani del giovane allievo Klemmer, invece la Jelinek trascina il lettore in una spirale di morbosità che si sovrappone esattamente alla morbosità con cui la protagonista si mostra una voyeur e poi una masochista, costringendolo a guardare in direzioni dalle quali, di solito, preferisce distogliere lo sguardo.
L’autrice non risparmia nessuno, né vittima né carnefice- anche se non credo esistano questi ruoli, poiché Erika non rientra nella definizione di vittima. Se è vero che tenta di ribellarsi alla madre (all’inizio del romanzo la aggredisce fisicamente arrivando a strapparle i capelli dalla testa) è altrettanto vero che, non appena si sente minacciata dal mondo, Erika si aggrappa al cordone ombelicale che le unisce e si trascina disperatamente verso il nido materno.
“ L’amore, in sostanza, è annientamento.”
Nel complesso mi è risultato anti-patico, nel senso stretto dell’etimologia della parola, lasciandomi addosso un fortissimo senso di disagio e di disgusto. E così Erika se ne va: “cammina accelerando lentamente il passo.”.
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