PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2006: Orhan Pamuk “perché nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”
LE NOTTI DELLA PESTE, di Orhan Pamuk (Einaudi – novembre 2023)
Aprile 1901. Sull’isola di Mingher, isola turca ubicata tra Creta e Rodi, è iniziata un’epidemia di peste. Sull’isola sbarcano il dottor Bonkowski e il suo assistente, il dottor Ilias: essi devono, per conto del sultano, imporre le misure sanitarie necessarie per contenere l’epidemia. A bordo del traghetto che li ha condotti a Mingher hanno incontrato anche il dottor Nuri, anch’egli esperto di quarantena e malattie infettive, con la giovane sposina, la principessa Pakize, nipote del sultano. Gli sposini sono diretti in Cina con una delegazione, sebbene non sia ben chiaro il loro ruolo. Il dottor Bonkowoski, che ha appena contenuto un’epidemia simile a Smirne, fatica a far applicare le regole sanitarie in un contesto complicato dove convivono musulmani, cristiani e greci ortodossi, dove i pregiudizi religiosi hanno la meglio sui principi scientifici e dove in molte persone non credono all’esistenza dell’epidemia. Quando Bonkowoski viene misteriosamente trovato morto, il dottor Nuri riceverà il compito di gestire l’epidemia sull’isola, sulla quale verrà condotto con la dottoressa Pakize.
Come non intravvedere, nel romanzo del premio Nobel Pamuk, tante analogie con gli anni appena trascorsi, i pregiudizi, il negazionismo, le teorie cospirative, i medici che, inascoltati, espongono le norme da adottare, la paura, la morte.
Ci sono molti, tantissimi elementi che meritano di essere menzionati in questo denso e corposo romanzo, per il quale contro Pamuk è stata aperta un’inchiesta per presunti riferimenti allegorici e sarcastici alla figura del padre della Patria, fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk. L’isola di Mingher è un’isola immaginaria, eppure questo è un vero romanzo storico: impossibile non pensare a Manzoni o a Camus. Con una voce narrante la cui identità viene svelata solo alla fine, con un bell’escamotage letterario, si raccontano il nazionalismo, il confronto tra classi sociali, l’islam politico, il rapporto tra fede e scienza. Molto bello il personaggio della principessa Pamuk, che con ogni mezzo a sua disposizione va verso la laicità.
Un’opera potente.
Recensione di Nadia Carella
IL MIO NOME E’ ROSSO, di Orhan Pamuk (Einaudi)
Chi ha ucciso il miniaturista e doratore Raffinato Effendi, nella Istanbul del 1591?
E’ quello che cerca di scoprire Nero, rientrato nella sua città dopo dodici lunghi anni di assenza con la speranza di sposare la sua bella Sekure, la donna che ha sempre amato.
“Se dentro di te, inciso sul cuore, vive il volto della persona amata, il mondo è ancora la tua casa”. E ancora “quando l’amore senza speranza capisce di essere senza speranza, il cuore ribelle capisce cosa sia la vita”.
E’ un libro complesso, apparentemente sembra una lunga favola che ci riporta ai fasti e alle bellezze delle Mille e una notte, a quei mondi dorati, al Sultano e alla sua corte, a libri preziosissimi, fatti con la fatica e l’amore del proprio lavoro da miniaturisti che tramandano il loro lavoro da generazioni, da secoli, passando per Cina, Persia e Turchia e che si mischiano con le nuove correnti europee ritenute eretiche per l’utilizzo della prospettiva. Una lunga scoperta del lavoro di questi personaggi, attraverso la conoscenza delle sure del Corano, delle tradizioni delle loro terre e del metodo con cui essi si applicano. La via per il cielo di Allah passa attraverso la perfezione dell’immagine, e più essa è perfetta più si avvicina a quella che solo Allah può vedere. Solo il miniaturista illuminato riesce a raggiungere quest’immagine, che non diventa altro che buio con la cecità che si raggiunge alla fine della vita, perché dopo aver contemplato la vera immagine che Allah ha del tutto non resta più nulla da vedere se non buio e l’infinità della pagina vuota.
“ I nostri occhi che si stancano a leggere le storie si riposano ad osservare i disegni. E il disegno è la fioritura a colori della storia. Nessuno può pensare che un disegno non abbia storia”.
Il libro è una catena i cui anelli sono i capitoli che si snocciolano da uno all’altro e si riprendono uno nell’altro. A parlare non sono soltanto i protagonisti ma anche i disegni così come escono dai pennelli degli artisti: un cane, un albero, i monaci dervisci, la neve, una moneta, persino un cadavere.
E’ un giallo, una storia d’amore, un romanzo storico, un romanzo filosofico, è completo.
“Esiste un unico rosso e bisogna credere solo in quello
recensione di Luciana Galluccio
NEVE, di Orhan Pamuk (Einaudi)
Pamuk racconta sempre una storia compiuta, fatti che provocano altri fatti, un inizio e una fine. Il poeta Ka, esule turco in Germania, torna nella cittadina di Kars, dove convivono turchi, armeni, kurdi, nazionalisti e integralisti, per documentare il fenomeno delle ragazze suicide in difesa del diritto ad indossare il velo. Non un episodio, semplice pretesto per raccontare agli occidentali una società diversa dalla loro, come alcune volte succede per esempio nei libri di Oz, ma una vera storia, che la sapiente quarta di copertina fa apparire intrigante e interessante. E in fondo lo è sempre Pamuk; ma devi dargli fiducia, quasi cinquecento pagine scritte fitte fitte, piene di particolari, di dialoghi, di descrizioni, una sfida alla resistenza del lettore.
Mi ha ricordato Il Museo dell’ innocenza, e non solo nella lunghezza, che in entrambi può apparire eccessiva. Ho ritrovato l’occhio di riguardo per i personaggi femminili che evidentemente l’autore preferisce, che tratta con rispetto e che considera “seri” nel bene e nel male, al contrario di quelli maschili verso i quali non nasconde una certa condiscendenza, una leggera ironia. Anche in Neve Pamuk appare di persona nelle ultime pagine del libro, e ne tira le fila, come se si volesse riappropriare della sua storia. Ma, sopra a tutto, c’è la neve, con la sua illusione di pace e silenzio, che nasconde brutture e violenza, destinata però a non durare per sempre. Come il mare di Magris: “qualcosa di grande in cui tutto si tiene e che sa sempre ciò che bisogna fare”, che quando si è ritirato ha lasciato dietro di sé “porcherie e fanghiglia raggrumata e tutte le barche in secca”. Fossi in voi, lo leggerei!
Recensione di Elena Gerla
PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA 2003: John Maxwell Coetzee
Be the first to comment