PREMIO PULITZER 1988: AMATISSIMA, di Toni Morrison (Frassinelli)
Il libro è stato pubblicato nel 1987 e ha vinto il Premio Pulitzer, la scrittrice è afroamericana e ha vinto il Premio Nobel per la letteratura nel 1993.
La vicenda da cui prende spunto il romanzo fu riportata da un articolo pubblicato nel 1856 e documenta la notizia che la schiava Margaret Garner (che nel romanzo diventa Sethe), resasi conto che stava per essere ricatturata dai bianchi, uccide la figlia di quasi due anni affinché possa fuggire da ciò che lei ha sopportato nel corso di una terribile schiavitù.
È una storia sulla maternità, sulla schiavitù, sulla memoria, sulla morte e la vita, è una poesia di viaggi, ombre, acque, fantasmi, presenze in cerca di velluto, schiene fiorite come alberi di ciliegio dopo le frustate lunghe anni, sogni, magia e meraviglia, speranze infrante e difficoltà irrisolvibili, scarpe nuove e frittelle di farina di mais.
Ad ogni pagina ho temuto di imbattermi in descrizioni di terribili fatti di violenza, sangue e sopraffazione, così non è stato anche se è innegabile che un grande dolore serpeggia ad ogni passaggio e lascia senza fiato, ma ciò che mi ha colpita è stata lo stile poetico e allo stesso tempo anche oscuro, tenebroso, ma il risultato è pura magia per la tecnica narrativa complessa e sofisticata.
È un romanzo femminile in cui le protagoniste sono donne schiave che possiedono una forza innata che le spinge a combattere, a vivere e a restare accanto le une alle altre perché grande è l’importanza riconosciuta alla comunità e alla solidarietà femminile. Eppure è proprio la figura della Madre che viene distrutta, annientata, torturata dai sensi di colpa e dalla giustificazione davanti a Dio e che porta il lettore a riflettere sul Male senza limiti che l’Uomo bianco può causare “Al mondo la sfortuna non esiste, esiste solo l’uomo bianco”.
La storia si svolge in tanti posti, ma il fulcro è la casa dove abitano i protagonisti, al 124 di Bluestone Road che è infestata dal fantasma della figlia assassinata di Sethe.
Al termine della lettura non sarà facile dimenticare la figlia minore, Denver sola e timida, i figli maschi Howard e Buglar che scappano da casa a tredici anni per sfuggire al tormento del fantasma, Baby Suggs, santa predicatrice riscattata dal figlio e suocera di Sethe e infine Paul D, uno schiavo proveniente dalla piantagione “Sweet Home”.
Alle volte si fa fatica a seguire le varie digressioni, i salti nel tempo e nello spazio, le storie che si intrecciano: il viaggio è difficile e amaro, la lettura non è leggera anche perché il romanzo è dedicato ai “sessanta milioni o più” di africani che morirono durante il secolo in cui la schiavitù negli USA era legale.
“Questa non è una storia da tramandare” così finisce il libro, alla fine, allora, resta solo il silenzio, denso di suggestiva poesia
Recensione di Chiara Savorgnan
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