PREMIO PULITZER 1996: IL GIORNO DELL’INDIPENDENZA, di Richard Ford
Non faccio mistero della mia passione per gli autori americani del ‘900. Bellow, Kerouac, De Lillo, Roth, Mac Carteney, Greene, Miller etc. etc. senza contare Steinback e Faulkner.
C’è qualcosa che mi affascina e al tempo stesso mi atterrisce nella narrazione dell’America, forse perché ci precede e in essa vedere la il nostro futuro.
L’esperimento sociale della ricerca della felicità ad ogni costo attraverso l’edonismo, la competizione , l’affermazione e il consumo come unica organizzazione sociale ormai possibile.
Qualcosa che riguarda loro e anche noi e forse il mondo intero. Una speranza di verità e di autenticità inevitabilmente delusa dalla vita vera vissuta che trasuda dai loro racconti. Il presentimento di fallimento incombente che aleggia su tutto. Spazi enormi, enormi possibilità. Un umanità dannata a tutti i livelli incatenata al mito di se stessi, sia nelle sonnacchiose e disperate cittadine del midwest, sia nei grandi agglomerati urbani.
Come in un unico grande girone dantesco una umanità dannata, sola, incompresa, spaesata aliena a se stessa senza radici in eterna migrazione in un infinito polverone sollevato da questo ansioso scalpiccio alla ricerca sempre di qualcosa che pare sfuggire in continuazione.
Uno stato di agitazione morale e materiale che coinvolge anche la più quieta delle normalità permeandola di questa asincrona irrequietezza senza pace.
Il nostro Frank ne è il tipico esempio. Un coacervo di desideri, di occasioni mancate, di ideali scontati ma deludenti. Un uomo alla fine , come si direbbe oggi, di successo ma eternamente in conflitto tra le sue aspirazioni le sue visioni e lo squallore annoiato e incompiuto che invece la vita gli riserva ad ogni occasione. Sconosciuto anche a se stesso, incapace di relazionarsi con i propri sentimenti e con gli altri in maniera compiuta e pienamente soddisfacente. Frank brancola senza costrutto nelle proprie emozioni mischiando sogno e realtà, vagando da un paese all’altro ma senza mai riuscire a sentirsi parte di qualcosa, in una eterna condizione di isolamento impossibilità di comunicare ed essere empatico. Impermeabile ad ogni coinvolgimento emotivo definitivo con il figlio passando per amanti, amici ed ex mogli. Sbattendo come una falena nella notte delle proprie contraddizioni e alla fine riuscire a sentirsi qualcosa solo nella folla festante ed estranea della parata del 4 Luglio.
Scritto magistralmente da R. Ford in una prosa sofisticata e potente solo per i veri amanti del genere
Recensione di Daniele Fontanelli
PREMIO PULITZER 2011: IL TEMPO È UN BASTARDO Jennifer Egan
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