PREMIO PULITZER 1998: PASTORALE AMERICANA, di Philip Roth
La disgregazione di una vita e di una nazione intera.
Il fallimento dell’individuo e di un paese interno.
La caduta generazionale.
Il prevedibile frantumato dall’imprevedibile.
La continuità unitaria falciata dal troppo, dall’eccesso, eredità di un passato di rivalsa e di riscatto.
Il non senso di ogni cosa incorniciata in quadretti di vita perfetta ma che di perfetta questa ha soltanto la cornice, strato lucidato a dovere dove si annidano le cimici dell’insoddisfazione, delle paure, delle inadeguatezze, dell’incomunicabilità tra presente e futuro, tra una generazione gloriosa e una generazione che apparentemente tutto possiede, ma che in realtà è soltanto vittima di un riscatto sempre più esigente.
Falò di idealismi estremi, confusi; modelli utopistici che di schiantano frontalmente come macchine impazzite da luna park.
E si ride sotto la maschera del dolore e dei perché, si finge che tutto è ok, che tutto va bene, che tutto passerà, ma piano piano la morte affonda le sue fauci nella carne indebolita dalle sofferenze interne.
“Pastorale Americana” è un capolavoro perfetto, un’analisi lucida e dettagliata nel deliberare le esistenze di una nazione del “siamo forti, siamo grandi, siamo belli, siamo potenti”, quando in definitiva nulla è perfetto, nulla è potente.
La perfezione e la potenza hanno basi imperfette che si poggiano su esistenze fragili, esistenze che hanno ereditato un peso troppo grande, generazioni instabili che si nutrono di benessere sulle note di “Image”; nessun paese industrializzato, nessun stato capitalizzato ne è immune.
Lo “Svedese”, giovane ebreo, alunno modello, atleta acclamato, marines, uomo professionalmente affermato nell’azienda paterna, marito e padre esemplare, un concentrato perfetto del mito americano (un mito da emulare, da eguagliare) è il protagonista ineccepibile di questo immenso romanzo epocale.
E come la maggior parte di noi – pensiamo ingenuamente di tenere sotto controllo ogni situazione perché tendiamo a pianificare anche le menti altrui, perché ci teniamo a essere belli, educati, talentuosi al fine di non creare sbavature e farci amare – anche lo svedese ha creduto di aver fatto le scelte giuste imboccando il percorso che congiunge passato, presente e futuro. Grande errore.
Non c’è percorso perfetto. No, assolutamente no.
E come lo svedese, quando davanti a noi si aprono fratture, voragini impensabili ci troviamo coscientemente soli con un fagotto di verità scomode, soli con il nostro alter ego che ci ha sempre mandato segnali che puntualmente abbiamo ignoriamo per evitare sbavature che potessero deturpare le facce lustre, pulite; sigilliamo il Vaso di Pandora.
Boom. Bombe ad orologeria, tsunami, terremoto. Stecchiti da ciò che non doveva accadere e da ciò che invece è accaduto.
“Pastorale americana è un romanzo perfetto perché insegna a credere che non esiste alcun credo inappuntabile
È un romanzo potente, che apre gli occhi per vedere oltre la staccionata geometricamente impeccabile.
Nessun sogno, americano o quello che sia, rimarrà intatto nel tempo. Prima o poi verrà sgretolato da ciò che non avresti mai pensato di pensare.
Scrittura graffiante ma mai eccessiva perché non oltrepassa la freddezza analitica degli eventi i cui fallimenti individuali si rispecchiano nel fallimento universale; trama vortiginosa in un crescendo logorante e sfiancante.
E si, cari amici se volete leggere la bucolica storia di Philip Roth armatevi con ardore di una grande forza di spirito, di pazienza, abbattete i luoghi comuni, infrangete i cliché. Credetemi c’è tanto di tutti noi.
Recensione di Patrizia Zara
Premio Pulitizer 2002: IL DECLINO DELL’IMPERO WHITING Richard Russo
PREMIO PULITZER 2002: IL DECLINO DELL’IMPERO WHITING Richard Russo
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