PREMIO PULITZER 2005: GILEAD Marilynne Robinson

PREMIO PULITZER 2005: GILEAD, di Marilynne Robinson

 

Un padre anziano e malato scrive una lettera al figlio, perché la legga quando sarà grande e possano così conoscersi attraverso le parole scritte, poiché non sarà possibile incontrarsi realmente. Joun Ames ha 76 anni ed è il pastore di Gilead, cittadina sperduta nel nulla dell’Iowa, il cui cui nome è lo stesso utilizzato in inglese per Galaad, famosa per il balsamo biblico. È un credente convinto, senza certezze granitiche: ma la bellezza del mondo è uno spettacolo che lo attraversa come una grazia e che illumina le sue riflessioni in ogni singola parola. La lettera è il racconto di una formazione, degli uomini ai quali è stato legato: il nonno, furibondo abolizionista che predicava con la camicia ancora macchiata di sangue e la pistola in mano; il padre, pacifista convinto e contraltare della follia paterna; il fratello, che abbandona Gilead e la fede come mondi mortiferi e assurdi; l’ amico di sempre ed il figlioccio, il misterioso Jack, che è così amabile e così impossibile da amare.

Lo sguardo di John ha il leggero distacco di chi vive come fosse già altrove e l’amore profondo di chi sente già nostalgia di quello che dovrà lasciare: l’amatissima giovane moglie, il figlio ancora bambino. Incantato da ogni nuova mattina che gli viene concessa, il pastore gode di ogni luce, di ogni sorso d’acqua: la benedizione per lui è nello scintillio di un viso bagnato, nelle lucciole che accendono la notte, nella risata della moglie. Si racconta, John Ames, parla con il figlio e intanto parla con Dio, ricorda e riflette, sbaglia e si corregge. La scrittura è sincera, di una raffinata semplicità, come se ogni parola fosse scelta con cura per la sua leggerezza – e precisione, se è possibile trovare i termini esatti per raccontare il profondo di un’anima colma di grazia. Non c’è balsamo in Galaad? Eccome; la musicalità della prosa della Robinson è una traccia costante, che culla, accarezza in superficie, tocca con lievità un punto e poi un altro: con dolcezza penetra sotto pelle, ed arriva giù in fondo, dove il nostro buio aspettava.

Arriva lentamente, il dolore per tutto quello che siamo destinati a perdere, per i figli lasciati nel deserto, per quello che potevamo ancora avere e non avremo – ancora una mattina, almeno due o tre. E non c’è paradiso, anche per John Ames, che lo attenda, che possa competere con la straziante bellezza di questo nostro mondo, che gli angeli del cielo canteranno come si canta la caduta di Troia: un mondo di eroi, destinati a perdere tutto.

Recensione di Marcella Mantovani

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