PREMIO STREGA 1992: IL CLANDESTINO Mario Tobino

PREMIO STREGA 1992: IL CLANDESTINO, di Mario Tobino (mondadori)

“Ci furono, come in tutte le guerre partigiane, ferocie, spavalderie, fughe, tradimenti, eroismi, uccisioni, vendette, litigi, fedeltà.”

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La letteratura italiana è così ricca di storie riguardanti il periodo della Resistenza e della Seconda Guerra Mondiale, che potrebbe esistere uno scaffale in ogni biblioteca con le opere di Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Elsa Morante, Giorgio Bassani. “Il clandestino” di Mario Tobino occuperebbe su questo scaffale un posto un po’ defilato, quasi timido, per la scarsa frequenza con cui viene letto e consigliato e per l’idea abbastanza diffusa che siano altri i libri rappresentativi della storia resistenziale. Il motivo potrebbe risiedere nella natura non pienamente apologetica delle pagine: il libro racconta infatti di un gruppo di giovani antifascisti che opera nel fittizio paese di Medusa, idealmente posto nel viareggino (una zona molto familiare a Tobino): una compagnia eterogenea, preda di ideologie, errori, improvvisazioni, ma per quanto manchi di organizzazione, si scopre capace di commoventi slanci di entusiasmo e passione.

Mentre leggevo “Il clandestino” di Mario Tobino, non ho potuto fare a meno di pensare che stavo leggendo, in realtà, non un romanzo ma uno spartito. Più precisamente uno spartito per soli, coro e orchestra. Le voci dei personaggi si elevano sul sottofondo sinfonico della storia universale e cercano disperatamente il loro ruolo. Così, in un susseguirsi di episodi e di piccole storie personali, Tobino mette in luce un intero spaccato sociale dall’aristocratico ammiraglio al duro calafato, abituato alle asperità dell’esistenza.

La grandezza del romanzo sta proprio nell’aver saputo raccontare un periodo storico eroico e terribile al tempo stesso, dando voce a personaggi, fascisti e antifascisti, che possiedono un’introspettiva umanità pulsante, imperfetta e proprio per questo realisticamente bellissima, che li rende verosimili, vicini, vivi

Recensione di Emanuele Procacci

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