PREMIO VIAREGGIO 1982: SE NON ORA QUANDO Primo Levi

PREMIO VIAREGGIO 1982: SE NON ORA QUANDO, di Primo Levi (Einaudi)

“Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto,
Tosate per mille anni, rassegnate all’offesa.
Siamo i sarti, i copisti ed i cantori appassiti nell’ombra della Croce.
Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta,
Abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto.
Se non sono io per me, chi sarà per me?
Se non così, come? E se non ora, quando?
I nostri fratelli sono saliti al cielo
Per i camini di Sobibór e di Treblinka,
Si sono scavati una tomba nell’aria.
Solo noi pochi siamo sopravvissuti
Per l’onore del nostro popolo sommerso Per la vendetta e la testimonianza. S
e non sono io per me, chi sarà per me?
Se non così come? E se non ora, quando?
Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada.
Ognuno di noi porta in tasca la pietra Che ha frantumato la fronte di Golia.
Fratelli, via dall’Europa delle tombe:
Saliamo insieme verso la terra
Dove saremo uomini fra gli altri uomini.
Se non sono io per me, chi sarà per me?
Se non così, come? E se non ora, quando?” (cit.)

Il volume in questione è il primo romanzo scritto da Levi: i libri precedenti sono il racconto delle sue esperienze, in questo decide invece di mettere al servizio della Storia il suo vissuto e le sue conoscenze per raccontarci la storia spicciola di un gruppo di profughi ebrei in maggioranza russi che dal 1943 decidono di combattere contro i Nazisti, rimanendo dietro le linee nemiche fino a percorrere quasi 2.000 chilometri a piedi, sulla via di Israele. E’ un gruppo eterogeneo ma testardo, che affronterà con coraggio (a volte solo con quello della disperazione) il freddo tremendo degli inverni russi, la fame, la paura, i pidocchi, si unirà a diverse formazioni partigiane e da altre verrà respinto, proprio per il loro essere ebrei., verrà aiutato dai contadini, altre volte tradito. Combatteranno, moriranno, uccideranno, perché “se non ora, quando?”: quando è il momento di reagire, di lottare, di mostrare il proprio valore, di vendicarsi, di cercare una nuova via, una nuova vita per sé stessi e chi sopravvivrà alla barbarie nazista? Loro hanno il coraggio, la forza o forse solo la disperazione per combattere anche per coloro che tali virtù non hanno. Attenzione, non sono eroi: sarebbe semplicistico definirli eroi e sminuirebbe la loro forza di volontà. Sono uomini come ognuno di noi, che di fronte al pericolo ed all’ingiustizia non trovano altra via che la lotta, nonostante, il pericolo, la morte e la tortura che incombono.

Il narratore principale è Mendel, un ex orologiaio, che ha visto distruggere il suo villaggio e morire fucilata sull’orlo di una fossa comune la moglie, insieme a centinaia di altre persone.

“Eh, sono cose incomprensibili, perché i treni corazzati li hanno fatti i tedeschi, ma i tedeschi li ha fatti Dio; e perché li ha fatti? O perché ha permesso che il Satàn li facesse? Per i nostri peccati? E se un uomo non ha peccati? O una donna? e che peccati aveva mia moglie? O che forse una donna come mia moglie deve morire e giacere in una fossa con cento altre donne, e con i bambini, per i peccati di qualcun altro, magari per i peccati stessi dei tedeschi che le hanno mitragliate sull’orlo della fossa?“ (cit.)

Lo accompagnano diversi personaggi, tutti sopravvissuti ad orrori inenarrabili, c’è chi ha vissuto quattro anni nascosto in una fossa, chi è fuggito da un lager, chi ha partecipato alle rivolte dei ghetti. Ma la volontà è la stessa, unica per tutti: uccidere, vendicarsi, perché i combattenti si rifiutano di essere solo vittime, vogliono combattere la malvagità dei nazisti ma anche assumere un ruolo preciso agli occhi dei russi, per i quali sono sempre e solo ebrei, popolazione di serie B da sfruttare ed opprimere.

“Ma al mio paese i tedeschi hanno fatto scavare una fossa dagli ebrei, e poi li hanno messi in piedi sull’orlo, e li hanno fucilati tutti, anche i bambini, e anche parecchi cristiani che nascondevano gli ebrei, e fra i fucilati c’era mia moglie. E dopo di allora io penso che uccidere sia brutto, ma che di uccidere i tedeschi non ne possiamo fare a meno. Da lontano o da vicino, alla tua maniera o alla nostra. Perché uccidere è il solo linguaggio che capiscono, il solo ragionamento che li fa convinti. Se io sparo a un tedesco, lui è costretto ad ammettere che io ebreo valgo piú di lui: è la sua logica, capisci, non la mia. Loro capiscono solo la forza. Certo, convincere uno che muore non serve a molto, ma a lungo andare anche i suoi camerati qualcosa finiscono col capire. I tedeschi hanno cominciato a capire qualche cosa solo dopo Stalingrado. Ecco, per questo è importante che ci siano partigiani ebrei, ed ebrei nell’Armata Rossa. È importante, ma è anche orribile; solo se io uccido un tedesco riuscirò a persuadere gli altri tedeschi che io sono un uomo. Eppure noi abbiamo una legge, che dice «Non uccidere». – … Voi però siete strani. Siete gente strana. Una cosa è sparare e un’altra è fare dei ragionamenti. Se uno ragiona troppo finisce che non spara piú diritto, e voi ragionate sempre troppo. Forse è per questo che i tedeschi vi ammazzano.” (cit.)

Gli spunti di riflessione sono infiniti, l’intero romanzo è percorso da un senso di ineluttabilità, di morte ed inquietudine costante, che fa riflettere profondamente il lettore e temere ancora di più quanto sta avvenendo oggi alle porte dell’Ucraina. Perché nella guerra tutti perdono, anche coloro che sono convinti di uscirne vincitori: i morti sono su ogni fronte come le vite distrutte. Ma ancora più tragica è la realtà degli ebrei: se per gli altri combattenti c’è una casa a cui ritornare, una famiglia, un villaggio, per gli ebrei non c’è più nulla alle spalle. Le famiglie sono state sterminate, i villaggi distrutti, la speranza di un domani cancellata:

“Si faceva sentire il rimpianto della casa, pesante per tutti, straziante per il gruppo degli ebrei. Per i russi, la nostalgia della casa era una speranza non irragionevole, anzi probabile: un desiderio di ritorno, un richiamo. Per gli ebrei, il rimpianto delle loro case non era una speranza ma una disperazione, sepolta fino allora sotto dolori più urgenti e gravi, ma latente. Le loro case non c’erano più: erano state spazzate via, incendiate dalla guerra o dalla strage, insanguinate dalle squadre dei cacciatori d’uomini; case-tomba, a cui era meglio non pensare, case di cenere. Perché vivere ancora, perché combattere? Per quale casa, per quale patria, per quale avvenire?” (cit.)

Ma nonostante tutto, vivere e combattere è stata la loro scelta, fino ad arrivare in Palestina. Ma questa sarà un’altra storia…

Recensione di Giulia Quinti

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