QUALCOSA ERA SUCCESSO A SANT’AMBROGIO, di Marco Incardona
A Sant’Ambrogio, più o meno nello stesso periodo in cui Marco Incardona scriveva questo romanzo, e combatteva come un Don Quisciotte della notte i suoi mulini a vento, io di giorno avevo le mie battaglie da fare, da madre sola, con due figli, un lavoro, una casa e la passione artistica da gestire.
Oggi, che i figli sono grandi e posso riempire le mie notti diversamente, eccomi assorta nella lettura di “Qualcosa era successo a Sant’Ambrogio”. C’è sempre un po’ di disagio in me quando gli uomini parlano della notte e delle donne che incontrano fra una bevuta e l’altra. Ho la mia parte femminista che non sopporta l’approccio generalista alle donne come se fossero lolite, rispondendo ai criteri delle fantasie collettive maschili.
Credo che dietro a tanta poca sostanza ci sia un vuoto enorme sia di qua che di là e per colmarlo non è sufficiente scoprire cosa era successo a Sant’Ambrogio. Forse colmarlo non è la parola giusta: diciamo per tradurne la sostanza in una declinazione che ci corrisponde… esatto appropriarsi del qualcosa e masticarlo nel proprio divenire. Insomma per far funzionare il nostro apparato digestivo ecco che Marco Incardona mette a disposizione più livelli di lettura, dove avventurarsi per le vie del quartiere è solo una delle tante esperienze – quindi non la sola – che il lettore può fare inseguendo il vagare notturno di Mario, il protagonista narratore alter ego dell’autore.
È come se insieme al libro, al lettore, venisse fornito una specie di tuta-kit-fai-da-te, della serie indossala se vuoi. E insieme alla tuta gli occhiali tipo tridimensionali, che forse non aggiungono solo la terza dimensione, ma anche la quarta, la quinta… a secondo della miopia del lettore. E qui, ognuno può inserire il proprio vissuto, o il proprio sognato, o il proprio scritto o il proprio letto o il proprio suggerito.
Una specie di libro aperto, dove parallelamente alla storia di Mario, Oliviero e Milena, ognuno può svelare gli arcani della propria vergogna, che parlare di sé e dei propri ondeggiamenti amorosi non è cosa da poco. In questa decodificazione, i contenuti si ergono e danzano in punta di piedi su una sapiente cornice che è viva, vera e si regge e ci regge perché non mente, non si spaccia per quello che non è, respira quello che c’è. Abbiamo detto che qui troviamo le notti vissute di un personaggio di nome Mario: in lui, sentiamo le pulsioni della ricerca, di un io randagio e poco convinto del luogo e tanto meno del proprio errare, fra parole lette, parole scritte, parole sognate e parole scambiate. Alcol, movida e danze a Firenze di notte: con Pinocchio e il naso lungo a significare le bugie che ci costruiamo per non vedere il famoso vuoto che si nutre di cliché, stereotipi e superficiali scambi amorosi. Intendiamoci: sesso e amore non sono la stessa cosa, ma sicuramente quando lo sono è una gran bella cosa.
Ma è altrove che si svolge la trama vera del romanzo. Sant’Ambrogio è un pretesto per parlare di altro. Come un’alchimia o un libro in codice. Meglio, come un libro ancor tutto da scrivere. O da leggere. Dipende dalla nostra posizione; possiamo scegliere la lettura passiva o la lettura attiva o interattiva che implica una riscrittura diversa. Ma quel che conta è che se riusciamo a intravedere questo piano di lettura, tocchiamo corde universali…
Ma … se volete seguirmi in questo mio viaggio, prego, posizionatevi alla partenza. Siamo ai ringraziamenti. L’autore ringrazia «tutta la sua famiglia, nessuno escluso», sottolineando il valore e il contributo particolare di alcuni parenti, aggiungendo l’importanza della memoria, di un luogo dell’infanzia, di un autore, di un amico che non si ringrazia, perché è diventato protagonista ed è entrato nella storia, e di un altro amico, quello che rilegge con infinita pazienza e corregge, quello che aiuta i cavalli a non perdersi nella bruma. Già qui mi sento protetta e amata come lettrice: in questo atteggiamento si respira umanità e mi sento inclusa.
Poi eccoci giunti alle citazioni di Bigongiari e Adorno: qui siamo spinti a cercare l’autore negli interstizi del quotidiano notturno, e a ritrovarlo cattivo, loquace … e io direi poco mordace, sicuramente musicale nei suoi otto movimenti, ma soprattutto nella relazione con gli amici che lo indirizzano verso la parola scritta: «sono stati questi due amici, [..] che hanno parlato davvero con me, a chiedermi di scrivere, sapendo che quello era l’unico modo per salvarmi.» (p.190) che l’amicizia può «sfidare il tempo», che scorre inevitabilmente verso «il baratro». Nell’architettura del romanzo, non si nota, il narratore lo svela in appendice. Il tempo del romanzo ha un inizio e una fine, determinato dagli amici che hanno chiesto a Mario di scrivere: Dan segna l’inizio, fatto coincidere con la scrittura dei sonetti dedicati ai Pianeti di Gustav Holst, e Oliviero la fine, con la scrittura del romanzo. Il tempo della scrittura è questo, ed è come se il romanzo diventando scrittura e successivamente letteratura riuscisse a ‘fregare’ il tempo, immortalandone un frammento. Un frammento modulato in otto movimenti, la fatica paragonata a una «traversata nel deserto», la speranza in un «fruscio d’ali».
Per ogni movimento una citazione, un autore, un’indicazione culturale. Nel primo movimento, indossiamo la veste barocca di Giovan Battista Marino (Napoli, 1569 – 1625), considerato il re del suo secolo, il grande maestro della parola. «Il tempo non gioca a dadi»: è tempo di fare i conti con la vita. Nel secondo movimento ci caliamo nell’atmosfera dei bar notturni fiorentini, dove il protagonista si arma di libri per fare il ‘cacciatore di Lolite’, un’arma innocua come il ‘nada’ pessoano. Nel terzo movimento, ‘Dio non si cura dei casi persi’ è un fare i conti con il tempo double face dove notte e giorno non sono modi diversi di vita ma entrambi tranelli di ipocrisia e falsità.
Si delinea la consapevolezza che, diversamente da quanto creduto in precedenza, la vita non sia un gioco d’azzardo, e niente andrebbe lasciato al caso. ‘Vestendo la giubba’ come chi canta ‘Ridi Pagliaccio’ continuiamo il nostro viaggio insieme a Ruggero Leoncavallo, e poi nelle vesti del guerriero di Castaneda, o del povero troiano, o finto Orlando o il ferito della Garde Imperiale, «niente rimaneva, sentivo solo i Gin Tonic che salivano inesorabilmente al cervello» (p.95). Il sesto movimento è la storia nella storia, la pensione Annalena si anima con tutti i personaggi che nella storia hanno abitato il palazzo, donne di grande fascino, poeti, musicisti e ogni genere di avventore.
Nel settimo, con Sartre, sì proprio con lui la guerra diventa l’obiettivo da scavalcare, e nell’ultimo con Dino Campana e Pinocchio, rimpiangiamo una città che non c’è, che non c’è stata ma che si erge maestosa e meravigliosa fatta di opere e di nomi che viaggiano potenti nel mondo. «Ma del resto una città che novera gente come Boccaccio, Dante, Donatello, Brunelleschi, Leonardo, Michelangelo e chi ne ha più ne metta, tra i suoi personaggi famosi, può benissimo permettersi di snobbare un Collodi qualunque.» (p. 172).
Di fatto, fra scelte sbagliate e dissacranti pensieri eccoci giunti danzando fra una parola e l’altra ai pentametri giambici dei sonetti planetari: una perla di rara bellezza da leggere -è un must – ascoltando Gustav Holst. Forse la risposta è solo questa: inebriamoci, inebriamoci, danziamo, danziamo e ringraziamo, ringraziamo.
Grazia Marco Incardona.
I consigli del Caffè Letterario Le Murate Firenze, di Sylvia Zanotto
Commenta per primo