QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO, di Ken Kesey
Il cuculo depone le uova nel nido di altri uccelli: il pulcino si sbarazza delle altre uova, appena venuto al mondo. In America “nido del cuculo” era un’espressione gergale con cui, negli anni 60, si indicava l’ospedale psichiatrico, ambientazione di uno dei primi e migliori romanzi in cui tale istituzione sanitaria è analizzata a fondo.
Due parole sulla trama, molto nota anche grazie al film di Forman: la monotona vita di un manicomio americano viene sconvolta dall’arrivo di McMurphy, un nuovo paziente la cui vitalità si contrappone immediatamente alla rigida disciplina imposta dalla Capo Infermiera.
La ribellione di McMurphy nei confronti dell’istituzione ospedaliera è l’occasione, per Kesey, di dare una sua versione dell’eterna lotta tra l’anelito di libertà di ogni individuo e la reazione schiacciante di qualunque sistema esiga il mantenimento dell’ordine, a qualsiasi costo; tuttavia descrivendo l’ospedale psichiatrico l’autore ne fa una metafora del ghetto, nel quale i pazienti sono gli emarginati di qualunque tipo, incapaci di adattarsi ai cambiamenti di ciò che li circonda.
Non a caso il protagonista e io-narrante del romanzo è un nativo indiano, personaggio che meglio di tutti incarna l’idea dello sradicamento e dell’emarginazione.
Lo stile di scrittura, caratterizzato da periodi asciutti e dialoghi dinamici e incisivi, alterna fredde descrizioni di vita ospedaliera a momenti più distesi e perfino sentimentali, che si pongono in netto contrasto con le descrizioni dei duri trattamenti riservati ai pazienti, in una prosa molto ricca dal punto di vista espressivo.
Seppure ottima la riduzione cinematografica, il romanzo per me rimane migliore e ne consiglio la lettura perché offre numerosi spunti di dibattito ancora oggi.
Recensione di Valentina Leoni
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QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO Ken Kesey
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