IL RACCONTO DELL’ANCELLA, di Margaret Atwood
Il primo libro della Atwood lo lessi, in America, nel 1986 ed era il suo primo romanzo “La donna da mangiare” che aveva scritto nel 1969. Non so perché non lessi “Il racconto dell’ancella” allora, dal momento che era appena uscito ed era già pluripremiato. I misteri della vita.
Eccomi ad affrontare questa lettura nel 2020, nell’era di Trump e del Coronavirus, quando questo romanzo distopico sta vivendo una seconda stagione di successo dovuta alla fortunata serie TV di Hulu con Elizabeth Moss e Joseph Fiennes. I temi trattati nel romanzo del 1969 sono quelli che daranno luogo alla finzione del 1985. Si parte sempre da un vissuto femminile ‘al servizio’ dell’uomo.
La protagonista de “La donna da mangiare” si sente a disagio, non si ama, piano piano il suo fidanzato le sta rubando tutte le sue energie, se la sta sbranando letteralmente. La sua anoressia è un rifiuto del cibo solo apparentemente: in realtà è il risultato di una situazione di sottomissione e incapacità di reagire: la propria identità rimane schiacciata da un quotidiano pesante, un lavoro sgradevole e un uomo noioso.
Se in questa cornice, ci troviamo in una società apparentemente libera, dove le scelte di vita sembrano ancora appartenere all’individuo, nel romanzo del 1985 la situazione è del tutto capovolta e la protagonista è totalmente schiacciata dal mondo esterno; proiettata in un mondo comandato dagli uomini a tal punto da essere privata persino del proprio nome: Di Fred – si chiama – cioè dell’uomo di nome Fred che può disporre di lei a piacimento ai fini della procreazione. Un futuro post catastrofe ambientale, in una dittatura maschile ispirata da certa società americana e puritana del 700, dove le donne subivano le peggio angherie maschili in nome di una religione che legittima Abramo a copulare con l’ancella visto che la moglie è sterile. “Il racconto dell’ancella” descrive una dittatura maschile dove le donne sono divise per ruolo e totalmente al servizio dell’uomo: ci sono le mogli, le zie, le cuoche, le ancelle.
Quest’ultime sono le uniche donne sane, non colpite dalle radiazioni o non ancora troppo anziane, capaci di procreare. Servono solo a garantire la continuazione della specie. La storia dell’ancella di nome Difred, è conosciuta perché lei è riuscita a registrare il suo racconto in cassette che verranno ritrovate dopo la fine di questa terribile stato dittatoriale. «Ci sono delle domande?» così finisce questo primo libro al quale sappiamo esiste un seguito, trattato nel romanzo “I testamenti”. Proprio questa sua apertura, questa sua capacità di interrogare il pubblico, i lettori, porta ad una visione possibilista del futuro. Ma per ora dobbiamo concentrarci sul presente: «Adesso c’è uno spazio da riempire, nell’aria troppo calda della mia camera, e un tempo anche, uno spazio-tempo, fra qui e ora, fra lì e allora, interrotto dalla cena. L’arrivo del vassoio, portato su dalle scale, come se fosse per un invalido. Un invalido, qualcuno che è stato invalidato.
Nessun passaporto valido, nessuna uscita.» L’intera struttura del romanzo si basa sul dualismo notte / giorno. Durante il giorno la protagonista è imprigionata nel suo ruolo, ma la notte è padrona di quello spazio-tempo che sono i suoi pensieri, i suoi ricordi, le sue aspirazioni che nonostante tutto la tengono ancora in vita. Una frase latineggiante la tiene all’erta: “Nolite te bastardes carborundorum” e cioè “che i bastardi non ti schiaccino”. Questa frase in finto latino sembra sia diventato un motto femminista, un tatuaggio diffuso.
Un motto condiviso. All’origine, Margaret Atwood ripropone il linguaggio comune in uso nei licei quando lei andava a scuola. È un pretesto per ripensare una scena dell’Odissea, dove dodici ancelle vengono uccise, dopo essersi concesse agli usurpatori, perché considerate colpevoli. Questa storia, come tutta la storia di Penelope verrà ripresa poi in “Il canto di Penelope” – dove la Atwood fa parlare Penelope, alla cui voce fanno da controcanto le 12 voci femminili delle ancelle trucidate da Telemaco.
È proprio il ruolo dell’ancella che viene così ribaltato dalla scrittrice canadese, con il solo tentativo di dar voce alla donna che si nasconde dietro. All’essere umano che si dispiega dietro le pesanti stoffe rosse del suo abito e le ingombranti alette bianche del copricapo che impediscono la vista.
Qualcuno ha detto che la protagonista di “Il racconto dell’ancella” non è un vero personaggio, la sua storia non la vede evolversi, ma piuttosto lasciarsi ingabbiare da un’apatia paralizzante. Ma credo non sia questo il punto. In Difred e nel suo racconto i punti sospesi sono tanti; ma è proprio questo ad essere inquietante. Un aspetto che emerge è la solitudine dell’individuo: isolato, senza strumenti per capire quello che sta accadendo, deve districarsi nel nulla per accedere alla conoscenza. Non sa. Inquietante. Fa riflettere. Come i grandi romanzi dell’epoca “1984” e “Il migliore dei mondi” il futuro ipotizzato non dice niente di nuovo se non di stare attenti perché il futuro potrebbe diventare un’iperbole di un presente e passato di fatti analoghi accaduti veramente.
Guardiamolo il nostro mondo: è pieno di orrori e di soprusi e la donna in certe realtà è ben lontana da essersi liberata dalla tirannia maschile. Fatti gravi si ripetono anche nelle nostre società dove sempre meno la democrazia è sinonimo di garanzia dei diritti umani. Una distanza ci separa dal mondo che vorremmo e quello che viviamo. Come la distanza inseparabile che il poeta Camillo Pennati ha scelto come titolo alla sua raccolta di poesie, dove il gap è reso ancor più evidente nella ricerca linguistica, che sempre più si allontana dal suono da riproporre, il suono della natura. Chissà cosa pensava Camillo Pennati mentre traduceva “Il racconto dell’ancella”; sicuramente a me viene da pensare che la distanza fra uomo e natura assomiglia alla distanza fra il poeta e il mondo, fra la poesia e le catastrofi ambientali che stanno uccidendo il nostro pianeta.
Recensione di IO LEGGO DI TUTTO, DAPPERTUTTO E SEMPRE. E TU? di Sylvia Zanotto
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