REQUIEM Antonio Tabucchi
«Tutti i poeti sono egocentrici, e il mio ego ha un centro molto speciale, d’altronde se volessi dirle dove si trova questo centro non lo saprei» (p. 119). Così il ‘Convitato’ parla di sé. O meglio riassume la caratteristica del poeta, eterno cercatore della propria identità, forse racchiusa in un centro non ben identificato, che potrebbe essere ovunque nell’universo, quello reale, quello dell’inconscio, quello del sogno, quello fittizio della letteratura, quello del narratore di “Requiem”.
Infatti il protagonista non è un personaggio ben delineato con caratteri che lo contraddistinguono, ma è un “io non meglio specificato”. Nello svolgersi di questa vicenda o ‘allucinazione’ come ci indica il titolo, il protagonista incontra personaggi piuttosto insoliti, vive situazioni strane, in una dimensione costretta nell’arco di una mezza giornata ma completamente avulse da uno stato realistico; ogni incontro è una rivelazione della propria ricerca, un tassello per indagare l’anima, l’inconscio o chiamatelo come volete, ma trattasi di quella cosa che ci appartiene, che sta dentro di noi ma che nessuno vede. E con lui anche il lettore si avventura nelle storie raccontate dai personaggi di ‘Requiem’ e anche lui si trova impelagato in un luogo strano, meraviglioso, esotico, alla ricerca di se stesso.
È l’ultima domenica di luglio. Lisbona è assolata e afosa e un italiano mezzo di sudore che normalmente vive in campagna si ritrova verso mezzogiorno ad aspettare un “tizio” che poi è un grande poeta (Pessoa) che non arriva. Non si sa bene dove ci troviamo: è un mondo al confine fra sogno, allucinazione o realtà. Così inizia un viaggio di dodici ore. Le tappe del viaggio sono invero degli incontri, alcuni con personaggi reali, altri con dei fantasmi.
Come già accennato, ogni incontro è una conversazione, ogni conversazione un chiarimento, un fanale che si accende sul proprio io. Fantasmi del passato, di persone vicine che sono passate a miglior vita e che hanno lasciato il protagonista con una sensazione di irrisolto che gli crea angoscia e inquietudine. Capisce così che finché non ha risolto alcune questioni non può andare avanti o oltre la propria vita.
E nemmeno quando a mezzanotte finalmente l’incontro con il grande poeta avviene, le risposte si palesano. Si manifesta invece il ruolo strategico della letteratura che non è quello di “tranquillizzare le coscienze” piuttosto di “inquietare” perché “l’angoscia” è preferibile ad una “pace marcia” (p.119)
Il libro è scritto in portoghese ed è un omaggio a una terra che Antonio Tabucchi amò molto, si sposò con una donna portoghese e scelse di vivere a metà fra l’Italia e il Portogallo. Nella nota dell’autore, spiega che la lingua del “Requiem” è il latino, ma “disgraziatamente”, lui con il latino “se la passa male”. Per creare “un luogo di affetto e riflessione” aveva bisogno di un’altra lingua. Solo la lingua portoghese riesce a rendere la Saudade, quel senso misto tra nostalgia e speranza per il futuro, tra malinconia e desiderio. Tabucchi sceglie il portoghese e sceglie anche di non tradursi in italiano.
La storia ci viene veicolata da una terza persona, Sergio Vecchio che è riuscito a superare il nodo cruciale di tradurre verso la lingua madre dell’autore facendo sua la citazione di Bertrand Russell: «Nessuno può comprendere la parola ‘formaggio’ se prima non ha un’esperienza non linguistica del formaggio». E per fortuna Sergio Vecchio aveva esperienza di Portogallo, e di ciò che significa il Portogallo per Antonio Tabucchi.
Fra le tante cose il Portogallo è anche un’avventura che si snoda fra cibi e vini portoghesi, che la cultura di un paese si mastica e si assapora a tavola senza pregiudizi di sorta. Un piatto come il sarrabulho à moda do Douro, è un ‘piatto velenoso’, a base di maiale e trippa, dall’aspetto repellente, che si rivela invece una ‘delizia’ con un ‘sapore di una raffinatezza estrema’.
E questo è solo un piatto fra i tanti che vengono gustati e descritti. Proprio così, Antonio Tabucchi ci regala attraverso questo piccolo viaggio tanti momenti da degustare con gli occhi e con la mente, per arrivare alle pagini finali, al commiato vero e proprio con il grande poeta portoghese che Antonio Tabucchi ha contribuito in maniera determinante a fare conoscere in Italia. ‘Requrim’ è un omaggio a Pessoa, a una certa letteratura, alla finzione che meglio di altre ‘bugie’ ci fa conoscere chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
Come la Vecchia Zingara che nelle prime pagine legge la mano al narratore viaggiatore. E parlando di zingari mi piace ricordare le parole della moglie, Maria José de Lancastre che in un’intervista racconta il Portogallo nel quale è cresciuta: «Beh, innanzitutto il clima [era] oppressivo. Anche se non ero politicamente preparata. C’è un episodio che mi è restato impresso. Potevo avere sei anni. In strada assistetti all’arresto di una zingarella. Sentivo le sue urla. Si divincolava come una bestiolina nella trappola. Aveva rubato non so cosa. Mi sentii a disagio. Mi sarei lanciata contro i poliziotti. La mamma serrò la mia mano. Mi vergognai. Per la prima volta compresi di essere privilegiata, protetta, rassicurata. Mentre un’altra parte del mondo non lo era».
Forse è la ‘zingarella’ un po’ cresciuta, quella che incontriamo nelle prime pagine di “Requiem”,
o forse è la voce struggente della zingara che si stacca dal fondo della chiesa insieme al suono dei violini e della fisarmonica degli zingari del circo Romanés che al funerale di Tabucchi gli resero omaggio con la loro musica. Già la musica. È quella tzigana che fa da sfondo al “Requiem” di Tabucchi. Ma se ascoltate Mozart o Verdi durante la lettura va bene lo stesso.
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