Riflessioni in merito alla parola “MERITO”
Attenzione: questo post non è una recensione, ma una semplice riflessione che voglio fare insieme alla bella comunità dei lettori di libri. Riguarda la parola “MERITO” che come tutti ormai sanno è stata aggiunta al vecchio nome del Ministero della Pubblica Istruzione: la nuova voce in nomenclatura voluta dal nuovo governo Meloni è, per l’appunto, Ministero della Pubblica istruzione e Merito.
Sono in tanti che hanno scritto articoli sui giornali o sui blog focalizzando la loro attenzione sul significato minacciosamente elitario della parola in questione, perciò non voglio aggiungere altro, ma voglio fare un altro tipo di riflessione sotto forma di un piccolo raccontino che riguarda non solo la mia vita, ma credo anche quella di chissà quanti altri.
Confesso che le uniche scuole che ho fatto da “quasi primo della classe” sono state le elementari, e questo perché quando andai in prima sapevo già leggere e scrivere (merito o colpa di mia mamma che mi costringeva a sacrificare mezza giornata di giochi). Quando arrivai in quarta elementare (anno scolastico 1963/64, sono molto… agée) ero un bambino tra i nove e i dieci anni. Stavo seduto al primo banco e il mio profitto scolastico era più che buono.
Ma… (i “ma” sono quelle cose che tagliano le gambe) a metà anno scolastico arrivò lui, arrivò Nicola! Attenzione: sto dicendo Nicola, perché tutti quanti gli altri eravamo solo cognomi (lo ribadisco: sono molto agée e negli anni ’60 gli scolari erano chiamati solo per cognome). Ma Nicola era un nome, e presto scoprimmo tutti il perché: Nicola era il figlio del Questore che era stato trasferito nella mia città ad anno scolastico già iniziato.
Noi eravamo cognomi perché mio padre faceva il barbiere, il papà di Panvini era netturbino (politicamente corretto dire “netturbino” e non “spazzino”), quello di Riccobene era emigrato in Belgio, quello di Bellomo faceva il minatore, quello di Schillaci era muratore, anzi: manovale, mentre Panettiere non aveva un papà che impastava il pane perché faceva lo stagnino (attenzione: lo stagnino non era l’idraulico). Il più ben messo da un punto di vista economico-sociale era Rapisarda che aveva il padre questurino (non si diceva “poliziotto” a quei tempi. Però se volevi fare arrabbiare Rapisarda bastava dirgli che suo padre faceva lo sbirro).
Nicola dunque era una specie di anomalia per la nostra classe, perché tanti di noi avevamo i pantaloni con le toppe (le toppe non fanno vergogna predicava mia madre sapendo che non sarebbe stata mai creduta, perché la vergogna me la sentivo cucita addosso proprio come la toppa sui miei pantaloni). Qualcuno aveva un unico paio di scarpe, quelle da tennis anche se chi li portava non sapeva manco cosa fosse il tennis. Erano di pezza, blu ultramarino, con la punta e la suola di gomma bianca. Il problema era che bisognava portarle estate, primavera, autunno e inverno, e se la gomma della punta e delle suole riusciva a resistere i primi tre o quattro mesi, la pezza che formava quasi tutta la tomaia, dopo i primi quindici giorni si assottigliava, poi si apriva un piccolo buco che si allargava progressivamente fino a quando quelle scarpe perdevano la dignità di scarpe per essere omologate alla categoria di ciabatte scassate.
Panvini che era l’ultimo di otto figli di un papà netturbino e che aveva solo quelle scarpe, non poteva mai giocare a pallone, e non solo perché gli era stato espressamente vietato dai genitori secondo i quali le scassava proprio a causa del calcio, ma perché lui stesso a ritrovarsi con un paio di ciabatte malconce sapeva che se avesse fatto una partita non sarebbe riuscito neanche a correre appresso al pallone. E allora ci rinunciava.
Bene, ma torniamo al giorno in cui Nicola (giuro che si chiamava proprio così, il nome non lo sto inventando) arrivò nella nostra classe. Cosa fece il maestro appena si vide arrivare niente meno che il figlio del Questore che anche se avesse fatto di cognome Gesucristo lui ci impose di chiamarlo solo con il suo nome di battesimo? Fece alzare me (Alerci, io ero solo Alerci. Forse il mio nome di battesimo non se lo ricordava più) che ero al primo banco, per cedere il posto al figlio del Questore. E siccome c’era un solo posto libero all’ultimo banco, mi spostò lì.
Non capii bene il perché, ma qualcosa mi diceva che ero stato fregato, che ero stato costretto a giocare una specie di partita in cui a perdere dovevo essere per forza io. Ma a dissipare ogni mio dubbio esistenziale, dopo appena qualche giorno, ci pensò il… bidello! Sissignori: il bidello, quello che niente sa di didattica e pedagogia però sta nella scuola, voglio dire: dentro la scuola, e quindi qualcosina deva averla assimilata dopo tutti gli anni che ci ha passato dentro. E cosa fece questo bidello? Semplice: entro in aula per far leggere una circolare al maestro, e mentre questi la stava leggendo lui, girando lo sguardo negli ultimi banchi se ne uscì con una domanda che molti anni più tardi avrei imparato chiamarsi “domanda retorica”. «Professò (i bidelli dell’epoca così chiamavano i maestri elementari, ve l’ho detto: sono anziano)» disse con un tono di soddisfatta certezza, «quelli dell’ultimo banco sono i più asini, vero?» Non ricordo cosa gli rispose il maestro, ricordo invece cosa risposi io: «Non è vero!» strillai con un urlo strozzato che sapeva di orgoglio ferito e di rabbia sociale. «Io non sono un asino!» Ma intanto il maestro aveva finito di leggere la sua circolare, la riconsegnò firmata al bidello che con un ghigno di scherno disegnato sulla faccia lanciò un ultima occhiata agli “asini” degli ultimi banchi ed uscì dalla classe.
Però entrò nella mia vita. Perché non l’ho mai scordato, e se per caso lo avessi scordato… Se lo avessi scordato ci avrebbe pensato don Lorenzo Milani. Ci sono i libri che cerchi e ci sono quelli che ti trovano. Anno scolastico 1970/71, sono in terzo magistrale, tra i sedici e i diciassette anni. Al magistrale perché dopo le elementari il resto della mia carriera scolastica venne improntata ad una sorta di mediocrità neanche tanto aurea. E allora cosa fai visto che non sei più tanto bravo a scuola? Vai al magistrale perché è un corso di studi di quattro anni (era così nel 1970) e se ti bocciano un anno è come se avessi fatto il liceo da bravo studente. Niente male! E poi al magistrale c’erano un sacco di ragazze.
Ora di italiano, il mio amico-compagno-di-classe del primo banco mi passa un libro perché io lo passi ad un altro amico-compagno del terzo banco. Ma leggo il titolo e mi incuriosisce non poco: “Lettera a una professoressa”, l’autore è un prete che non ho mai sentito: don Lorenzo Milani. Anziché passare il libro lo apro, lo metto sopra le gambe per nascondermi all’insegnante e comincio a leggere. E non mollo più il libro, lo divoro, obbligo il mio amico a prestarmelo, me lo porto a casa per finirlo. L’indomani lo riporto in classe per passarlo all’altro amico mio.
Cos’era accaduto? Che don Milani mi aveva spiegato un sacco di cose: non ci sono scolari mediocri, ma soltanto scolari più poveri dove nelle loro case non ci sono libri, non ci sono enciclopedie, si parla solo il dialetto, ecc., che il Nicola che avevo incrociato in quarta elementare nel libro di don Milani si chiama Pierino, che la scuola era classista perché tendeva ad emarginare quelli più poveri bollandoli come asini. Che molti insegnanti trascurano gli studenti che stanno più “indietro” e coccolano i più bravi, perché stanno più “avanti” e richiedono meno sforzi, e poi perché sono socialmente più… come posso dire? Più… meritevoli?
C’era stato il ’68, ma io avevo quattordici anni, e del ’68 mi ricordo solo Marcuse, ‘sto nome che sentivo circolare tanto spesso. Quando sono diventato “grande” ho provato a leggere “L’uomo a una dimensione”, ma erano passati troppi anni, quel libro non lo capivo perché non mi stava spiegando un bel niente. Lo chiusi dopo aver letto poche pagine. Capivo invece don Milani, perché lui era stata un’eresia che con la sua passione, la sua forza, la sua intelligenza, la sua voglia di andare nella direzione ostinata e contraria, aveva smontato il merito. Don Milani aveva preso una parola apparentemente bella, sana, positiva, e aveva mostrato come in un contesto così vitale e importante quale l’educazione e l’istruzione quella parola fosse pregna di un significato tanto ambiguo e pericoloso perché significava discriminazione, ingiustizia, disuguaglianza.
Devo molto a quel libro e ai libri che ho sempre amato. Mi hanno aiutato a capire e a capirmi e alla fine mi hanno convinto… che non ero proprio così mediocre perché ho fatto l’università e mi sono laureato.
Merito è una parola che tanto piace alle elites alle quali poco importa della cultura, tant’è che siamo governati da almeno un trentennio da una razza padrona (anche questa è un’espressione che prendo a prestito dagli anni ’70) cafona, rozza, ignorante e impreparata… anzi, come scriverebbe il Presidente della Camera dei Deputati, che per merito occupa quello scranno, INPREPARATA.
Buone letture a tutte e a tutti.
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