RIPARARE I VIVENTI  Maylis de Kerangal

RIPARARE I VIVENTI, di  Maylis de Kerangal (Feltrinelli)

«È lei la madre di Simon Limbres?»

Quando il telefono squilla, Marianne si è da poco riaddormentata, non è lei a rispondere, ma Lou, sette anni, che si limita ad entrare in camera, appoggiare il telefono all’orecchio della madre, per poi scappare via, per non perdere nemmeno un’immagine del cartone animato che sta guardando in salotto.

Marianne balza sul letto, urla, ansima, prova a chiamare Sean sul cellulare, si infila i vestiti di fretta, affida la figlia ai vicini di casa, tira fuori la macchina dal garage e corre all’ospedale. Con una mano guida, con l’altra asciuga le lacrime. Si precipita nella hall. La tragedia, però, si è ormai già consumata.

Di ritorno da una sessione di surf, in un’alba gelida, che li ha lasciati sfiniti, bruciati, doloranti, violacei, tremanti, appagati, felici, Chris, Johan e Simon hanno un incidente con il loro van, che non ferma la corsa e finisce contro un palo. Il passeggero al centro del sedile, l’unico a non indossare la cintura di sicurezza, viene scaraventato in avanti dalla violenza dello schianto ed urta il cranio contro il parabrezza. All’arrivo dei soccorsi, il tesserino della mensa ritrovato nel giubbotto ne svela l’identità: è Simon. Ha soltanto diciannove anni. Arriverà in ospedale in coma.

Steso sul letto nel reparto di rianimazione, coperto con doppio lenzuolo fino all’altezza del petto, la morte di Simon diventa un crocevia di altre esistenze; in primis quella dei genitori, naufraghi già alla deriva, a cui viene rimessa la scelta di un possibile espianto degli organi. E poi quella dei dottori, degli infermieri, delle diverse equipe mediche, che si muovono in un’altra trama parallela, con le lore scelte personali e professionali, che li hanno condotti tutti nello stesso drammatico punto: davanti ad un cuore perfetto che deve essere salvato.

L’autrice soppesa con cura le parole da usare. L’ospedale si trasforma nel metronomo che batte il tempo della sinfonia da eseguire, dentro le regole di un rituale già collaudato che non ammette sbavature. Non ci sono margini per la banalità e per speculare sul dolore. Scrittura elegante e potente che ti costringe a chiudere gli occhi, sospirare e poi ricominciare a leggere.

Recensione di Chiara Castellucci

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