
RIPARARE i VIVENTI, di Maylis De Kerangal (Feltrinelli)

Ho iniziato questo libro due volte.
La prima lo dovetti abbandonare al quarto capitolo, ambientato , come quasi tutto il resto, nel reparto di rianimazione di un ospedale dove si trova ricoverato il diciannovenne Simon Limbres, in coma irreversibile a seguito di un incidente stradale.
“….l’arresto del cuore non è più segno di morte, ad attestarla è ormai l’abolizione delle funzioni cerebrali. In altri termini: non penso dunque non sono. Deposizione del cuore e consacrazione del cervello – un colpo di stato simbolico, una rivoluzione.”
Queste parole, che testimoniavano i progressi della disciplina tali da permettere una nuova definizione di morte ( e il prelievo di organi), mi fecero crollare.
Leggere le considerazioni fatte dal medico del reparto mi procurò un’ emozione, tale da registrare un’ accelerazione del battito cardiaco, che mi fece temere di sentirmi male. E non me lo potevo permettere…
Riporto questa esperienza personale non per parlare di me e della mia salute, ma per confermare quanto i libri possano incidere su di noi, in generale, sulla sfera cognitiva e su quella emotiva.
Ma torniamo alla vicenda narrata: questa si svolge nell’ arco di ventiquattr’ore, in prevalenza nello spazio suddetto, e vede in progressione lo schiantarsi del dolore nei genitori di Simon, della fidanzata, poi la tormentata decisione della donazione degli organi, e ancora tutte le procedure legali e tecniche per l’ espianto, il successivo trapianto e la ricomposizione del corpo del ragazzo.
Ruotano intorno a quel corpo, attaccato alle macchine che gli consentono una vita vegetativa, i medici, i chirurghi, gli specializzandi, il personale infermieristico altamente qualificato. Nell’ambito della narrazione non sono semplici comparse, ma balzano in primo piano ciascuno con il suo ruolo; bastano all’ autrice pochi tratti per delinearli e caratterizzarli nella propria individualità e nella tensione comune verso un traguardo professionale e morale.
E non manca il ruolo del “ricevente”: una donna di una cinquantina d’anni che senza trapianto non avrebbe avuto futuro.
Tutti questi personaggi danno una coralità alla vicenda tanto da essere paragonata ad una tragedia greca. Appaiono infatti pensieri altissimi di riflessione sulla vita e la morte, senza retorica e senza melense espressioni, alternando anzi descrizioni tecnologiche a momenti poetici, aspetti mitici ( quasi mistici) e perfino un canto funebre.
Il tema che accomuna tutti è l’ idea del “riparare”, che è poi risanare, rinnovare, rinascere, trasformare la morte in vita, restaurare un corpo umano, preservarne la dignità, metterne a frutto la generosità.
“All’improvviso, non vede più una materia assoluta in luogo di quel corpo disteso, un materiale di cui far uso e da dividersi, né un meccanismo fermo che si studia per salvare i pezzi buoni, ma una sostanza di una potenzialità inaudita: un corpo umano, la sua forza e la sua fine, la sua fine umana – ed è quell’emozione, più che ogni fontana di sangue dentro una bacinella di plastica….”
Al centro di tutto, la metafora, il simbolo del cuore, rapporto quasi mitico o per lo meno emozionale con quest’ organo nella cultura di ogni tempo.
Non so se sono riuscita a comunicare la positiva tensione verso un obiettivo clinico e morale che appartiene ai personaggi e alle situazioni narrate.
Questa tensione è, parallelamente e magistralmente, espressa nello stile e nel linguaggio della scrittrice: ” lingua ardente” la definisce la stessa traduttrice ( bravissima anche lei!).
Come in una composizione musicale, la scrittura presenta vari movimenti. A tratti piana e limpida, a tratti impetuosa, complessa, come un fiume in piena, precisa e rigorosa o connotativa, secondo le situazioni, sempre di registro piuttosto alto, la prosa crea un ritmo, una cadenza che coinvolgono il lettore quasi, a volte, togliendogli il fiato.
Credo sia superfluo aggiungere che questo libro mi è piaciuto tantissimo.
Recensione di Maria Guidi
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